tutte le gioie che questo
mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse o troppo volgari;
ebbe torto di credersi più forte della natura, che è la fonte della vita e di
avere quasi una superstiziosa paura di ciò che in qualche modo poteva
fargli piacere. Sappialo che è meglio allargare la vita in cerchi sempre
più grandi fino a comprendere la rassegnazione e la coscienza delle
umane cose, anzichè restringerla nella celletta del cervello per forza
d'una morale contrazione.
Ma ogni più bel ragionamento non ha mai guarito un cuore afflitto, e
quand'anche il Bazzero non fosse figlio del suo tempo, malato per
troppa delicatezza morale, avrebbe avuto questi torti in comune con
quasi tutti i più grandi poeti dell'umanità che non conobbero le
matematiche leggi dell'equilibrio.
«No, scriveva il Rousseau, la natura non mi ha creato per godere; ella
ha distillato nel mio cervello il veleno di quella felicità ineffabile di cui
ha messo il desiderio dentro il mio cuore.»
È del Wagner la sentenza che non riesce a nulla se non chi è sempre
malcontento di qualche cosa.
Nel Giornale intimo di H. F. Amiel, che suscitò recentemente in
Francia un interesse assai vivo, e che offre la storia di un altro pensoso
solitario, s'incontra spesso questa scoraggiante compiacenza di voler
essere infelice quasi a dispetto della natura. Anche Amiel scriveva:
«Diffido di me e della felicità perchè mi conosco.» E se non fosse la
paura di offendere la santa modestia dell'amico, vorrei trovare nel
Leopardi, nell'Heine, nel Byron, nel Tasso i suoi fratelli maggiori.
Da questo stato dell'animo, prodotto alla sua volta da inevitabili
condizioni fisiologiche, deriva spesso quella specie di malattia della
volontà, che si trasforma in una mutabilità continua di desiderii e di
propositi, in una incostanza di simpatie, in trasporti vivi e in profondi
abbattimenti, come fu veramente la vita del nostro. Per superare una
difficoltà a cui sarebbe bastata una schietta e franca deliberazione, noi
lo vedemmo riprendere gli studi classici all'Accademia di Milano,
coll'intenzione di laurearsi in lettere, e poi smetterli per darsi tutto allo
studio delle lingue moderne, e tentare la pittura, e maledire libri e
pennelli, per tuffarsi nella politica e nella carità, senza che nella sua
coscienza entrasse mai la persuasione che tutto ciò gli potesse servire a
qualche cosa. Sempre egli ritornava poi alla solitudine del suo studio,
scoraggiato, affranto, ammalato di desiderii infiniti, e cercava la pace al
bromuro di potassio.
Colla storia dell'Anima si collegano gli scritti che seguono, cioè gli
Schizzi dal mare o Acquerelli com'egli li intitolò variamente.
Sono un poema marino, in una forma sciolta dal verso, ma risonante di
melodie interne, luccicante di colori e d'immagini, in cui l'anima del
Bazzero trabocca ne' suoi momenti migliori.
Se è vero che questo dovrà essere il sembiante della futura poesia, il
giorno che avrà rotto i ceppi della vecchia e della nuova metrica, al
Bazzero potrà forse venire anche una piccola lode di precursore, che
egli non sognò quando scrisse dietro il naturale impulso.
La città, il popolo, il mare, i villaggi dell'incantata riviera ligure, i
marinai dalle schiene di bronzo, le bagnanti, i colori dell'onda, il suo
anelare immenso, i misteri delle sue profondità, una chiesetta, una
barchetta, un canto, un gruppo di aloe nodosi, dei fiorellini, eccovi una
serie di piccoli schizzi e di acquerelli, animati da una continua
emozione e legati da una erudizione abilmente usata e argutamente
presa a gabbo. Il poeta trasfonde il suo io in tutto ciò che vede e tutto
vivifica di sè. Qualche pagina scintilla d'una meravigliosa evidenza.
Sembra che la parola stessa rinunci alla sua logica natura per
diffondersi in colore e in luce.
Leggete com'egli descrive i grigi pennacchi dell'onda che vengono a
incalzarsi, a sfioccarsi, e il suo gonfiare e suo colmo trasparente
verdissimo e il concavo lenissimo e il fragore e il dibattersi delle ondine
che sommuovono ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendono con
troscie lucenti (vedi a pag. 158). La lingua, come sentite, si ripiega
sotto l'urto dell'impressione e scattano fuori delle arditezze felici che
piacquero di poi in libri meno significanti. Si avrebbe torto di volere in
una prosa comune ciò che scoppia continuamente con impeto lirico, ciò
che divaga nei mille capricci dell'ora, dell'estasi, della tristezza,
dell'umorismo e si perde nelle azzurre profondità di una filosofia
panteistica. Aprite il libro e leggete subito, per farvi un'idea dell'uomo,
il bozzetto Sera a pag. 184. Se vi pare che due dei nostri trecento lirici
classici abbiano più profondamente sentito il dolore di un tramonto, e
lo spasimo voluttuoso di quel dondolarsi a fior d'acqua e di quello
spandersi dall'anima sui colmi dell'onda, di quel vanare nell'infinito,
dite pure che il Bazzero è un poeta inutile di più. Per me, apro il mio
cuore, certi tratti conservano ancora dopo tanti anni
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