si fosse, ma gentil, ma calda
Di lodevoli brame, ed inscia quasi
Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
D'amor per tutte le virtù, e
seguirle
Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
Tale, od un vero
giusto esser dovea
Chi affascinasse d'Ebelino il core;
E Sàtan nol
trovava, e con dispregio
Maledicea la lealtà nativa
De' figli del
Trïon, popol rapace
Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
Ma
quando già il crudel quasi dispera,
Ecco s'incontra in uomo onde il
sembiante
Tosto il colpisce; e fra sè dice:--«È desso!»
Ed esulta, e
più guata, e vieppiù esulta.
Quel benedetto dall'orribil genio
Era un
prode straniero, e fama tace
Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
Sul suo destrier peregrinava, e ladri
Or assaliva, degli oppressi a
scampo,
Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
Se mercadanti, e più
se ebrei. Nè spoglio
Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
Non
l'avesse un fratel, che del paterno
Retaggio spossessollo.
A che di bosco
In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
Dal caso alte
venture, e perchè tarde
Erano al suo desìo, volgea frequente
Il
pensier di distruggersi; e più volte
Dall'altissime balze misurava
Coll'occhio i precipizi, e mestamente
Rideagli il core, e si sarìa
slanciato
Nelle cupe voragini, se voce,
O aspetto di mortali, o
speranze altre
Non l'avesser ritratto.
--O cavaliere,
Salve.
--Scòstati, scòstati, o romito;
Oro non tengo.
--Ed oro a te non chieggo;
Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
Ma nobile è il tuo spirto. A
me tue sorti
Occulta sapïenza ha rivelate:
Vanne a Bamberga; ad
Ebelin ti mostra:
Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
A' clementi
occhi del regnante istesso.
Così Satan, e sparve.
Incerto è quegli
Se fu delirio o visïone. Al cielo
Volge supplice il
viso: in cor gl'irrompe
De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
A
cancellarli, e quindi in poi di tutte
Virtù di cavaliere andare ornato.
In quel fervor del pentimento, incontra
Un mendico, e su lui getta il
mantello,
E sen compiace, e dice:--Uom non m'avanza
In carità e
giustizia.
E Sàtan rise,
E non veduto gli baciò la fronte.
Alla real Bamberga
andò Guelardo,
Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
Supplice
presentossi, e pïamente
Da quella bella e grande alma si vide
Ascoltato, compianto, e di non tarda
Aïta lieto. Un fascino infernale
Sovra la fronte di Guelardo imposto
Ha del demone il bacio. Allo
straniero
Conglutinossi d'Ebelino il core
In breve tempo; e nella
reggia e in campo
Quei Gionata parea, questi Davidde.
Mirabile
brillava ad ogni ciglio
Quella forte amistà: Saran fremeva
Ch'ella
durasse, e il volgersi degli anni
Affrettar non potea. Nè ratto varco
Sperabil era tra i pensieri onesti
Che Guelardo nodriva e la sua
infamia,
Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
Nella virtù emularlo,
e il desiderio
Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
Angiol si
confortava misurando
L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
Secoli, breve istante eran poch'anni.
Ed intanto ci godeva, a
quell'imago
Che tigre, sebben avida di sangue,
Mira la preda, e
ascosa sta, e sollazzo
Tragge di quella contemplando i moti
E
l'amabil fidanza, ed assapora
Più lentamente la decreta strage.
Dopo
tanto aspettar, s'appressa il giorno
Sospirato dall'invido. Al novello
Otton contrarie qua e là in Italia
Eran le menti di non pochi, e speme
Vivea secreta ch'italo Ebelino
Secretamente lor plaudesse. Il core
Di molti era per esso, e nelle ardite
Congrèghe entro a' castelli, ed
appo il volgo
Susurravan, più splendido rinomo
Non avervi del suo;
null'uom più voti
A suo pro riunir; doversi acciaro
Dittatorio
offerirgli, o regio scettro.
L'augusto sir dalla germana sede
Contezza ebbe di fremiti e lamenti
Nell'alme de' Lombardi esasperate,
Ed a sedarle con prudenza invìa
Ebelino e Guelardo.
Alla venuta
Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
Che fama
addoppia de' lor alti pregi,
E più de' pregi di colui, che sembra
D'onnipotenza quasi insignorito,
Ferve ognor più l'insana speme, e
tutta
In congressi pacifici prorompe,
Ove i duo messi imperïali
invano
Senno indiceano e obbedïenza.
--O prodi!
Così Ebelin risponde al temerario
De' corrucciosi invito;
io condottiero
Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
Gli son da
conoscente animo e onore,
E il portai fra mie braccia. E quando
insieme
Del moribondo padre suo le coltri
Inondavam di pianto, il
sacro vecchio
Nostre mani congiunse, e disse:--Un figlio,
O
Ebelino, ti lascio;--ed a te lascio,
O figlio, un padre in Ebelino!--Ed
era
In tai detti spirato. Allora il figlio
Gettommi al collo ambe le
braccia, e molto
Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
E il
chiamai figlio. Ove pur reo di patti
Violati con voi fosse il mio sire,
Biasmo sincer da mie labbra paterne
Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
Ma non odio, non guerra, non perfidia!
--Deh! taccïano, Ebelin,
privati affetti,
Ov'è causa di popoli. Ed ignota
Mal tu presumi
essere a noi l'ingrata
Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
Tanti
acquistasti a guiderdone e lode.
Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
Finge, ma stolta è finzione omai
Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
Possente sei, ma più non sei quel desso
Che ne' duo regni un dì tutto
volvea.
Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
Sul germanico seggio
ov'ei l'assunse
Recò le greche astuzie, e lo circonda
Di greci
consiglieri. Essi con lei
Van macchinando contro te ogni giorno;
Che se finor cadute anco non sono
Le podestà che a te largì il
monarca,
Della tua rinomanza egli è prodigio,
E nel tiranno è di
pudor reliquia.
Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
D'Otton
l'iniquità rotto ha i legami
D'ogni giusto con esso.
Un de' maggiori
Così parlò fra gli adunati audaci.
Nè, sebbene
oltrespinta, era appien falsa
La parola
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