rito in uom si vede;
Sdegna le vanità, sdegna i
piaceri;
Più non vuol che Speranza e Amore e Fede,
E benefici, puri, alti pensieri,
E studi gravi, e faticante vita
Pe'
divini del Golgota sentieri!
Ah! benchè poi dopo cotanto ardita
Dolce fidanza, a tempo non
lontano
Trascorra ov'a lui d'uopo è nova aïta,
Al Crisma santo ei no, non mosse invano:
Però che in lui ritorna con
possanza
Questa voce secreta: «Io son cristiano»!
E ripiglia la Croce, e al ciel s'avanza.
A me quella secreta, amabil voce
Più nella giovinezza non diè posa,
Sì che sovente alla gettata Croce
Rivolsi la pupilla timorosa;
E
sebben mi paresse incarco atroce,
La riportai con esultanza ascosa,
Rammentando mia infanzia, quella Chiesa,
E quel Crisma, e la possa
indi in me scesa.
E qual fu lo splendor d'un altro giorno:
Il giorno in cui di sè nutrimmi
Iddio!
Ah! non in tempio di gran pompa adorno
Trarre allor mi fu
dato al festin pio:
Genitori e fratei piangeanmi intorno,
E venne il
Pan celeste al letto mio!
E l'accolsi agognando inclita sorte
Dopo la
sovrastante ora di morte
Ma l'offerta ch'io pronto a Dio porgea,
Non fu accettata, e lunghi dì
ancor vissi!
Oh! chi può dir con qual d'amore idea
Morte sperando
al Salvator m'unissi?
Mille fïate poscia a me riedea
La ricordanza di
quel giorno, e dissi:
«Deh, possa ancor con sì sublime amore,
Come
in quel dì, ricever io il Signore!»
Quindi appena sui piè mi ressi alquanto
Dopo quel memorando atto
divino,
Mossi alla chiesa, e di dolcezza ho pianto,
Ivi tornando al
sovruman festino:
E mi parea che con dolor più santo
Io sopportassi
l'egro mio destino,
E che tutto il mio core arder dovesse
In avvenir
di quelle fiamme istesse.
L'ombra del tempio al giovinetto è invito
A pensieri gentili ed elevati:
Tacite preci, canto, augusto rito,
Tutto ivi il trae da' ciechi impeti
usati;
Tutto l'inizia a pregiar l'uom, munito
Di ragione e d'affetti alti
ispirati;
Santa filosofia quivi il matura
Sì che in terra egli stampi
orma secura.
Che se ignobile in terra orma sovente
Stampa il mortal che pio fu
giovanetto,
Non è già perchè sia guida impotente
Religïone a
obbedïente petto,
Ma perchè alla celeste Conducente
Sveltosi l'uom,
s'affida a novo affetto,
E segue il proprio orgoglio e i vili esempi,
E
teme la beffarda ira degli empi.
Oh come lor beffarda ira scagliata
Contro gli altari l'alma mia
percosse!
Ed, ahi! la prima voce scellerata,
Che da innocente fede
mi rimosse,
Uscì da tal, che, dopo aver sacrata
Sua vita al tempio, il
divin giogo scosse!
Quanto è alta luce pio, ver Sacerdote,
Tant'è
funesto mastro ogni Iscariote!
D'inferno una smania
Tormenta quel tristo,
Che indegno consacra
La coppa di Cristo,
Che insegna il Vangelo
Con labbro infedel;
Che invidia de' laici
Le vesti e la chioma,
Che irato sogghigna
Sui cenni di Roma,
Che nutre eresia
Mal cinta da vel.
Ossesso quel petto
Quïete non gode
Se in alme innocenti
Non
getta sua frode,
Se non avvelena
Lor candida fè:
Ei spera,
involando
Credenti al Signore,
Estinguere il verme
Che rodegli il
core,
E dirsi: «Per gli empi
»Castigo non v'è».
Tal fu lo sciagurato, onde la prima
Fïata io stupefatto e impaurito
Intesi accenti di bestemmia astuti
Contro a' misteri, dietro cui l'eterna
Maestà del Signore all'uom traluce.
Avess'io a quell'apostata
strappata
L'indegna larva! L'avess'io al cospetto
De' giusti vilipeso!
Io stoltamente
Tacqui, e volsi nel cor le rie parole
Dell'incarnato
Sàtana, e sorrisi
Al suo ingegnoso e perfido sorriso,
E in forse stetti,
fra i dettami austeri
Da verità segnatimi, e i dettami
Lieti e superbi
del parlante serpe.
Da quel funesto giorno io non potei,
No, disamar
le sante are paterne,
Ma a quando a quando io le mirava, incerto
Se
venerar le dovess'io, siccome
Ne' miei dì d'innocenza, o se più senno
Fosse obblïarle o irriderle, e aver soli
Idoli i miei voleri e il mio
ardimento.
Così varcai l'adolescenza, e gli anni
Toccai di
giovinezza, ebbro di studi
E di speranza nelle forze innate
Del mio
altero intelletto. E pure i templi
Secreto avean per me fascino sempre!
E sovente io gettava i baldanzosi
Libri, e fuggìa le argute, empie
congreghe,
Per raddurmi solingo e sconfortato
Sotto i tuoi grandïosi
archi vetusti,
Lugdunense Basilica, ove i primi
Apostoli di Gallia
hanno sepolcro!
Oh bella chiesa! Quante volte prono
Colà pregando
e meditando io piansi
Le natìe abbandonate Itale sponde,
E il
focolar lontano, ove la madre
Ed il padre e i fratelli erano assisi,
E
piansi in un mie tenebre, miei dubbi,
Mie passïoni, ed il perduto Iddio!
Perduto, no, per me non era! e il lume
Di lui mi sfolgorava alcune
volte
Sì che sparìan le tenebre, e di novo
Io mandava dal core inni
di gioia.
Ma tempi erano quei di non verace
Filosofia, sulle rovine
sorta
Di molti altari, e sovra molto sangue;
E la Gallica terra, infra
sue pesti,
Di sacerdoti rinnegati avanzo
Chiudea velenosissimo; e i
più feri,
Più studïosi e scaltri eran nemici
De' sacri templi, rïaperti
allora,
E dal Corso magnanimo scettrato
Arditamente in onoranza
posti.
Un di que' Giudi inverecondi a' passi
Miei s'attaccò: l'ornavan
lusinghieri
Eletti modi, e pronto ingegno, e il foco
De' sottili
motteggi scoppiettanti,
E facile parola, e d'infiniti
Libri
conoscimento, e quell'audace
Sentenzïar che sicuranza appare.
Sommessa voce ripetea d'orecchio
In orecchio: «Ei fu monaco»! E la
macchia
Sciagurata d'apostata sembrava
Sedergli orrenda sulla
calva fronte,
E dir: «Nessun più sulla terra l'ami!»
E nessun più
l'amava, e nondimeno
Ascondean tutti l'intimo ribrezzo,
E cortesi
accoglieanlo, e davan plauso
Alla dolce arte della sua favella.
Quella canizie al disonor devota
Orror
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