Lucifero | Page 6

Mario Rapisardi
ei fu visto Spaz?ar l'insegnato etere, or chiuso Tra' fulmini precipitar su l'ale Dei rotanti uragani, or sovra al dorso Dei cavalli del mar correre i flutti E sfrenar l'onde a battagliar coi venti; O ver come immortal fremito immenso Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo Degli avari terreni, e al vigilato Solco apparir fra le compiute ariste. Però quel che Dio fu, quale ancor vive, E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino, O prospero, o maligno, arbitro è solo. Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse E le cose universe, il fronte oppose Con indomito orgoglio, e una selvaggia Voce di libertà gittògli incontro, Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta Prepossanza di Dio tenne equilibre Con perenne agitar? Fu la feconda Lite, che il mar de l'essere commove Con assiduo flagello, e dai cozzanti Corpi la luce e l'armonia deriva. Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto Padre di servitù, per fiero istinto, Rubellossi da prima; essa al feroce Andropòfago Iddio scosse la reggia Vigilata dai fulmini; e dal fiero Cozzo con lui tanta favilla emerse, Che, mutata dagli anni in fiamma viva, Tutto divorerà dei numi il regno. O d'ogni libertà fonte primeva, Madre d'inclite pugne, io ti saluto! Tu co'l moto la vita, e co'l solenne Fra le cose de l'alma egregio attrito Luce dèsti e saper negli intelletti E co'l saper la libertà, sublime Pianta, che sol dov'è coltura alligna. Te da la terra solitaria i saggi Primamente avvisar; te, spiratrice Di terrigeni mostri a Dio rubelli, Raffiguraro e coltivar le genti, E or fosti Isi nomata, or Bahavàni, Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco, Or discordia infinita, e, se paura Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli, O fur da sacerdoti emp? travolte, Nome avesti d'errore e di menzogna Tu, che ad onor del vero e de la luce I misteri del cielo agiti e sperdi. Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi. Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli Troni d'Olimpo, il nèttare libando D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna, Fra le dapi fumanti e le vezzose Fanciulle che tesseangli inni e carole, Cura de l'uom gli penetrava il petto. Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti Dal comando di lei, che Lite ha nome, Quanti mai da la terra erano usciti Terribili Titani, a cui la forza Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire; E avventando ciascun li suoi cinquanta Capi feroci e le altrettante braccia Contro ai regni di Giove, orribilmente Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo. Arse d'ira il tiranno, e forza a forza Oppose, e vinse. Da le attinte altezze Precipitar gl'intrepidi gagliardi Un dopo l'altro fulminati, e monti Ed isole parean, che in un selvaggio Moto la terra, o il mar vorace inghiotte. Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo Di cotanta caduta, o sopra a tutti Sventurato Titano? Eran pur folli D'ùrano i figli, ove tenean, che segga Maggior virtù, dove più grande e saldo Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto A pugnar contro a tutti e a vincer basti. Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza Di giganti tr?onfa, o adamantina Spada conquide, e solo a la modesta Continua punta del pensier soggiace. Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse Furor d'atre procelle, a poco a poco, Morsa dal flutto che le geme intorno, Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi, E il flutto assiduo del pensier li rode. Così Giove fu vinto, e in simil guisa Vinto sarà chi gli successe. Or odi Quel ch'io feci e farò. Da una malnata Bordaglia rea, che da natura in dono Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede, Ièova ne venne, un implacato iddio, A cui fulmine è il guardo e tuon la voce. Solitario e funesto egli incombea Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto Dei tremanti mortali, e gran sepolcro Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo, Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi. Io nel cielo era ancor, bello di tutti Rad?amenti. Era sorriso e luce, Fragranze ed armonie del ciel la vita, E, cullati in un mar d'ozii e di fiori, Si tenean tutti e si dicean beati. Sol'io, spirito inquieto, indifferente A quell'aprile, a quel banchetto eterno, Sentía dentro a l'altera anima un v?to Mister?oso, un mar senza confine, Come una solitudine infinita D'intorno a me, dentro di me: se avessi Conosciuto l'amor, forse in cor mio Ravvisato l'avrei sin da quel giorno. Poco mi parve il ciel, misera vita L'eternità. Di strane opre, di voli, Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie Tal m'invase un desío, che sfere ed astri Corsi, cercai,
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