guerra, Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu
sei!-- Tacque, e a l'ardito favellar commosse Tremâr l'aure d'intorno, e
agitò i fianchi La titanica rupe. Era nel monte Negra, profonda, solitaria,
intatta Da umane orme e dagli astri una spelonca Di bronchi irta e di
sassi. Orrido intorno Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi Fianchi,
qual di commosse ali e di strida, Cupamente rintrona. Irati al verno Vi
piomban da l'opposta erta i torrenti Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a
salti Mugulando spumeggiano; ma quando
Giungono al vallo de l'orrenda uscita, Perde l'onda il nativo impeto, e
pigra, Torba, pollente s'impaluda, e manda Pestiferi mïasmi a chi la
spira. Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi L'umanato Demonio, e
con feroce Piglio di scherno a contemplar si stava L'orrido sito e il ciel.
Da le profonde Viscere allor del cieco antro una voce Querula, lunga,
dolorosa emerse Come suon di sospir. Porse l'orecchio, E s'appressò
l'Eroe, quanto il permise L'angusto varco e la stagnante gora, Ed
ascoltò: --Di che perigli in cerca, Misero! vai? Che stolta opra e che
vano Talento è il tuo di proseguir l'impresa, Ch'io già per tempo
incominciai, spregiando La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi Son fatto
accorto, e di Prometeo il nome Mal mi dieron le genti! E che non feci,
Che non diss'io per questa al pianto nata Cara stirpe de l'uom? Cieca ed
ignuda Giacea nel lezzo de l'error, sì come Belva cibando la caonia
ghianda, E altra legge nel mondo, altro governo Non sapea che l'istinto:
ad altri ignota E a sè stessa giacea, scherno e vergogna De le cose
create, e le create Cose, ignara di tutto, iva mescendo Con fallace
giudicio. Ahi! qual dei numi Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo Io
sol più che a me stesso? E non cotanto Mi punse il cor la fulminata
fronte Dei fratelli Titani, e non di sdegno Arsi così per l'usurpate sedi
Del fuggiasco Saturno e pe' negletti Consigli miei, quanto d'affetto e
d'ira Destommi in cor la tribolata sorte Degli umani infelici. Ardito e
solo Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce Contr'esso Giove, allor
che ad uno ad uno Sprecava i doni al vegetale e al bruto, E a l'uom,
misero tanto, altro conforto Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
L'uomo infelice il mio favor: sol io Gli svegliai l'intelletto; io di
sapienti Arti e d'opre gentili e di gagliardi Ardimenti lo instrussi; io
sotto al trono Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi Non minor d'alcun
altro. Ahi! qual mi venne Premio da ciò? Non che n'aver mercede,
L'invida rabbia arsi di Giove, e degno Tenuto fui d'ogni più cruda
ammenda Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi, Come vedi, io mi
fiacco, e a le voraci Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno E favola
del mondo. E nè querela Movo di ciò; chè il querelar non giova A chi
esente è di morte; e inesorata L'ira è dei Numi, e inesorato al pari
L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto Colser giammai di mie fatiche
tante, Del mio tanto soffrir le sconsolate Proli del mondo? Ahimè, che
sórte appena Da la tenebra antica, a l'infinita Luce del Ver schiusero gli
occhi, e poco Poco a lor parve ogni più grande acquisto; Tal che, tolte
dal sonno, ai sogni in preda Diedersi tutte, e del saver la sete Arse in
loro così l'alma e la vita, Che a precoce vecchiezza e ad immatura
Morte fûr sacre e a maledir condutte L'alto mio dono e il sagrificio
mio!-- --Figlio di Temi, a lui rispose irato L'inclito Pellegrino, e che
perigli Fantasticando vai? Nè vil fanciullo, Credi, io mi son, che si
rivolta in fuga A la prima minaccia, o nauta imbelle, Che trema al più
leggier spirto di vento, E si chiude nel porto. In questa eterna Rupe
confitto, in verità, tu ignori Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei Carco di
mal, di falsi mali agli altri Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia Questi
vani compianti, e oltre misura Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno
Tolto il senno davver le tue sciagure. Però sappi, e t'acqueta: opra
gagliarda Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno, La compirò. Non già
il saver, t'accerta, Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto, Ma la nemica a
ogni saver, la cieca Credulità. Di false ombre e d'inganni Essa vive nel
mondo, e si fa gioco De l'umana ragion; ma quest'azzurro Cielo e
quest'aure e questi monti io giuro, Ch'ella è presso a morire, e arbitra in
terra La ragion sederà; largo e securo Spiegherà il vol su' mal temuti
errori Il redento intelletto; e allor che tutto Ciò che vuol,
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