la cosa più naturale del mondo; donde avveniva che non ne facesse pompa. Ma ogni suo gesto, ogni volger di ciglio, facevano scorgere quella bellezza sotto un aspetto nuovo e sempre migliore del primo. E cotesto, siccome ho detto, senz'ombra d'artifizio. Sia che la si facesse guardare di profilo o di fronte, sia che arrovesciasse il capo e mostrasse una fila di denti candidissimi e piccini, sia che pensierosa aggrondasse le lunghe ciglia sugli occhi semichiusi, ella era sempre la più bella, la più desiderata tra le donne. Arguta e colta com'era, neppure si avvedeva di dire cose leggiadre, e mostrava di accorgersi sempre di quelle che si dicevano a lei, o dintorno a lei. Segnatamente per le sue sorelle in Eva, ella era cosiffattamente buona, da parere, non che magnanima, spensierata. Figuratevi che la dicea schietto alle sue amiche qual veste o quale acconciatura di capo ella avesse divisato mettere per la festa da ballo della Prefettura, o per altra delle pochissime a cui si aprivano le sale de' suoi pari. E quelle subito ad imitarla; ma, quantunque facessero, la sarta non conferiva loro quel garbo della persona, quella grazia che spesso è ascosa in una piega da nulla, come gli amorini nello zendado di Venere.
Tutto insomma era natura in costei. Nata bella in una culla d'oro, cresciuta in mezzo a tutti gli agi di un lusso intelligente, tra i profumi della nativa eleganza, io credo che ella succhiasse l'arte col latte. Credo eziandio che facesse versi, ma sarei pronto del pari a scommettere che non avesse imparate mai le regole della prosodia. Ella era, giusta la frase culminante della adorazione mascolina, un angelo sceso in terra, ma un angelo femmina, s'intende, a cui fossero state recise le ali per tornarsene in cielo. La qual cosa, quanto sia vera per gli angeli, dicano i teologi. Per la marchesa Bianca, io reputo che un po' meno di bellezza e un po' più di cuore, non avrebbero guastato, anzi avrebbero reso più ragionevole il paragone.
Ho fatto un lungo discorso della marchesa di Roccanera, in primo luogo perchè le cose rare vogliono una più grande attenzione, e poi perchè la era l'unica donna che io guardassi molto, a que' tempi. Non l'amavo, e, come ho già detto, fuggivo le occasioni di accostarmi a lei; ma, poichè era bellissima, mi pareva che, veduta ad una ragionevole distanza, colorisse alla mia mente il tipo della donna; e in lei guardavo un tipo, non altro; consolavo un affetto d'artista, soddisfacevo ad una curiosità di studioso. Così, allorquando m'ero ristucco colle noie della vita giornaliera, me ne andavo a teatro, dove sapevo di trovar la marchesa, al davanzale del suo palchetto, nel suo solito posto, colle spalle rivolte alla scena; andavo a piantarmi ben lontano da lei, all'altro fuoco dell'elisse; e laggiù, confuso nella moltitudine, mettevo mano allo strumento di Galileo e investigavo il mio tipo, facendovi su ogni sorta di dotte considerazioni. Ero come l'astronomo che guarda una stella lontana nello spazio, ne misura il volume o la densità, ne arguisce la temperatura e tutte l'altre proprietà fisiche.
Da cotesto argomentate che cosa io facessi per l'appunto in quella sera donde piglia cominciamento la mia narrazione. Senza desiderio di lei, senza invidia del marito, senza fastidio de' cavalieri serventi, che facevano la dozzina come i segni dello Zodiaco, m'ero posto a contemplare la bellissima donna. Ella in quel momento, col gomito fermo, alzava ed abbassava in cadenza la mano, percuotendo leggermente il velluto del davanzale con un occhialino di madreperla, raccomandato all'anulare da una sottil catenella d'oro. Guardavo quella manina sottile che scherzava col suo gingillo meno prezioso di lei, e quel braccio che usciva, stupendamente tornito e stupendamente bianco, da un'onda di pizzo nero. Dal pizzo i miei occhi salivano all'omero ignudo (faticosa salita dove si sarebbe voluto far sosta ad ogni tratto, come su per gli scaglioni della piramide di Chèope), e dall'omero, considerata l'impervia dirittezza del collo, spiccavano un salto sul viso. La marchesa Bianca rideva; rideva pazzescamente, ascoltando certi complimenti che, col viso curvato a poca distanza dal suo, le andava sciorinando Eugenio Percy, seme forastiero trapiantato in terra nostra, uno dei più ricchi, dei più eleganti e dei più colti cavalieri di Genova.
Mentre io stava fantasticando di questa guisa, una mano posata sulla mia spalla e il suono di una voce nota, mi vennero a rompere il filo delle considerazioni. Erano la mano e la voce di Guido Laurenti.
--Sempre fermo al tuo posto di combattimento!--mi disse egli sorridendo.
--Sì, al mio posto, ma non già di combattimento, come tu dici. Io sono neutrale, come l'Inghilterra; e tu?
--Io! qui certamente più dell'Inghilterra e di te.
--Che vorresti tu dire, Laurenti? O perchè saresti più neutrale di me?
--Non guardi tu la Roccanera?--mi chiese egli.--Non è ella, per tua stessa confessione, la donna che tu guardi
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