digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia, ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m'è rimasto impresso nella memoria, de' casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre eziandio l'autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili; laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a chi scrisse.
Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo. E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni; sibbene (e vo' dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che sanno essere un giorno accadute.
Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l'anno e il mese da cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi di suo pugno la data.
Era per l'appunto in quell'anno e in quella stagione; sulle scene del teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per l'undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c'era più in platea quella frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari) il malanno delle prime rappresentazioni.
Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia; rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si gira liberamente da un capo all'altro dell'emiciclo, dando un saluto a diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d'ogni parte le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire ogni seno.
Quella sera, adunque, nel secondo intermezzo dello spettacolo, ero andato a piantarmi comodamente, e senza paura di gomitate, contro la parete circolare della platea, e là, fantasticando non so che cosa, volgevo sbadatamente le lenti del binoccolo su questo e su quello dei palchetti di seconda fila. Ma siccome non c'è viaggio che non abbia la sua stazione, anche il mio binoccolo fece sosta, e lunga sosta, al palchetto della marchesa Bianca di Roccanera, quella meravigliosa bruna, che parecchi de' miei lettori rammentano di certo, dalla persona snella, dal portamento di ninfa, celebrata pel ricco volume dei neri capegli, attorcigliati con leggiadra negligenza là dove il conte Ugolino amava mettere i denti all'arcivescovo Ruggieri, e ricadenti sul collo in due larghe ciocche crespate, che le davano un'aria (ma intendiamoci bene, un'aria!) di malinconia incantevole.
La marchesa Bianca ci aveva un'altra aria eziandio, che non s'ha a dimenticare in un ritratto come questo. Sebbene ella avesse già varcato i venticinque, e i suoi occhi, quando a caso si posavano su qualcheduno, avessero virtù di trapassargli il cuore e lasciar nella ferita l'impressione gelida dello strumento omicida, la ci avea pure un non so che di vergineo, anzi d'infantile a dirittura, che traspariva da tutti i suoi modi, e guai a chi ci si fosse lasciato cogliere; imperocchè quel candore, se non era artificiale, era pur tuttavia il più pericoloso di tutti gli artifizi, come quello che era in lei un retaggio della natura, una forma, un'apparenza, una lusinga di più, della quale essa era come inconsapevole, ma che, anco inconsciamente, le serviva per tirarle ai piedi quegl'incauti, che poi dovevano morire assiderati sulla soglia del santuario, sempre chiuso com'era.
Io ho parlato colla marchesa Bianca due volte appena, in tutto quel tempo ch'ella stette a Genova, ma tuttedue le volte in carnevale, colla maschera sul volto. L'incantesimo di quella sua meravigliosa bellezza o di quel candore vergineo fu tale, che la paura soverchiò la fidanza, e cansai sempre le occasioni di esserle presentato. Dell'anima mia nel mondo di là non so che debba accadere; ma se l'inferno c'è, non voglio cominciare a provarlo nel mondo di qui; però, dopo averne saggiato una volta, temporibus illis, fuggo le pene dello spirito come il diascolo l'acqua santa. Egli c'è a questo proposito un adagio, triviale se volete, ma calzante: ?il cane non torna dove fu bastonato.?
La marchesa Bianca sembrava non saper nulla della sua tentatrice bellezza, o, se ella lo sapeva, le doveva parere
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