pagare un cortese tributo all'amor delle lettere. V'hanno coloro che leggono, e lodano lo scritto, o la buona intenzione dello scritto, ma pigliano il libro ad imprestito. V'hanno finalmente coloro che lo scherniscono, senza averlo comprato, nè letto. Ora dimando io, come ha da cavarsela il povero autore, in un simile stato di cose?
Noi italiani, quanti siamo a saper leggere e scrivere, non ci adoperiamo punto, per fare un po' di strada al libro italiano. La stampa periodica non reputa ufficio suo prestarsi a quest'opera di grande utilità, e molto per colpa sua (lo si lasci dire a me, laureato in questa magra disciplina), gli scrittori intisichiscono coi loro libri nelle rispettive cerchie di mura. Per contro, la stampa sullodata aiuta, e grandemente, a far comperare da tutti il libro forastiero. L'annunzio facilmente accolto, la volubile loquacità del novelliere parigino, la notizia bella e fatta, che non c'è altra fatica a pigliarla, fuor che un colpo di forbici, finalmente l'andazzo, la necessità di mostrarsi al fatto d'ogni novità letteraria che sia strombettata tre mesi a tutti i trentasei venti della bussola, fanno sì che il libro francese sdruccioli alla lesta da noi, aspettato, ammirato, salutato, come una nave che dopo una lunga fatica di mastri d'ascia e calafati, finalmente abbandona il cantiere, per tuffarsi nel suo elemento.
Nè io mi lagnerei di cotesto, se cogli italiani si adoperasse del pari. Ma di questi, o per noncuranza, o per deliberato proposito, si tace. Gran mercè quando s'è amici: imperocchè il giornale tira giù quattro righe, ma senza ombra di pensamento, senza lume di critica, così alla dozzinale, come si va scodellando la minestra ai poveri sulla porta dei conventi: ed allora, la è grazia profumata. Donde avviene che ogni lettore italiano sa il nome, non pure dei quattro o cinque luminari della scienza e dell'arte forastiera, ma eziandio delle costellazioni minori, e financo delle nebulose; ma nulla, o quasi, degli autori nostrani, e il milanese non ha notizia del napoletano, nè il fiorentino del torinese. Quel po' di notorietà che si spande, dopo lungo anfanare, tra letterati, è un semenzaio di pettegolezzi, una società di mutua denigrazione.
Io quasi vorrei proporre ai giornalisti e scrittori italiani un congresso, per sciogliere inter pocula questi problemi: a che giova la proprietà letteraria, se il libro non val nulla? che vuol dire che facciamo sempre la pappa altrui, e alle cose nostre non provvediamo? se il libro è una buona cosa, come arte e come industria, come decoro letterario e come fonte di guadagno per molta gente, perchè non aiutiamo ad arricchire il paese? e se non lo è, perchè ci lagniamo della scarsità dei buoni studi tra noi?
A tali distrette è la letteratura italiana! E se non facciamo ancora uno sciopero (che forse sarebbe il meglio, e nessun compratore della nostra derrata se ne recherebbe più che tanto) rimanghiamo tuttavia i più gran scioperati del mondo, e quando lavoriamo, c'è nell'opera nostra la svogliatezza di chi lavora senza mercede; non c'è ordine, non comunanza di propositi, non cospirazione di intendimenti. Siamo una dozzina di scuole, che tutte si adoperano alla spartita, che tutte cominciano dal loro abbicì, e non riescono a capolavori.
E avanti così, poichè così vuole la nostra fiacchezza. Uno si ferma disanimato a mezza strada, e ripiglia l'avvocatura; l'altro s'agguata ad una cattedra, contento di marcirvi; un altro muore d'inedia. Povera arte, povera scienza, fino a tanto che nessuno si capaciti della necessità d'un rimedio.....
Ella ora, gentile amico, condoni la tantaféra, ed ami il suo
Di Genova, il 26 maggio 1867.
ANTON GIULIO BARRILI.
[1] Questo, ed altre cose che seguono, non sono più vere per me, siccome dimostra il fatto della presente edizione, che è la seconda del libro, e potrebbe dirsi più ragionevolmente la prima; tanto l'antecedente fu ristretta per numero di copie, e soffocata per angustia di mercato. Amo cionondimeno lasciarle correre, come furono scritte dapprima, per non avere a ritoccare la dedicatoria, nella quale v'hanno, io mi penso, considerazioni giustissime intorno alle grame condizioni della vita letteraria italiana. E prego il cortese editore a lasciarle correre del pari, rammentando che repetita juvant, e per molti rispetti, se non per tutti, verranno a taglio anche adesso.
Aprile, 1869 A. G. B.
L'OLMO E L'EDERA
I.
Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb'essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell'arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell'autore.
Io,
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