ed aragonesi;
triste monumento di anni troppo celebrati, illustri per sciagure ed
infamie. Quel palazzo rammentava l'esosa boria dei forti e i vigliacchi
fremiti degli oppressi; quelle arcate maestose e cupe, quelle volte
polverose, quelle lunghe pareti sulle quali erano dipinti i fasti dei
signori, ritornavano al pensiero la servitù della plebe avvilita, l'audacia
dei protetti, la millanteria dei bravazzi, l'ignoranza superba dei fortunati,
la dispotica inviolabilità dei frati e dei conventi, la partigiana
indipendenza del clero.
In una sala a pian terreno, che dava sul giardino, passeggiava a lunghi
passi il maggiore, e ritta presso la porta del cortile stava la guardia. Era
il maggiore un tal Frazitto di Marsala, uno dei pochi isolani che
tenessero alti posti nell'esercito del re di Napoli. Più birro che soldato,
il Frazitto ubbidiva ciecamente ai comandi dei capi, e servo dei gigli
aveva rinnegata la bandiera nazionale non per odio ma per viltà;
liberticida senza saperlo, egli seguiva con scrupolosa devozione la sorte
di chi lo pagava. Il sovrano non aveva più devoto suddito di quello, e
con croci e danaro ricompensava le sevizie al paese nativo. Frazitto era
amato dagli uomini della reggia, e specialmente raccomandato a
Salzano godeva distinzioni e privilegi. Il visire di Palermo, certo della
fedeltà del cagnotto, lo aveva quindi designato a custode dell'ordine in
val di Platani ed investito della massima autorità, imponendo ad
ognuno che lui riconoscessero per capo ed obbedissero. Teneva
spiegata fra mani una carta, ma non leggeva: l'avviso dello scoppio
della rivoluzione gli aveva cacciato il demonio nelle vene e nella
fantasia pigliavan forma e corpo le più strane idee di sangue e vendetta.
Meditava, fremeva, e assai tempo sarebbe rimasto in preda a quella
febbre di rabbia e impotenza se un gridìo improvviso non l'avesse
scosso ed un uffiziale non si fosse allora appunto precipitato nella sala.
Si rivolse brusco brusco, e ficcando negli occhi dell'apparso due
sguardi smarriti, balbettò:
--Altre novità?!
--Pur troppo, maggiore; Vallelunga, Villalba, i pecorai di monte
Ficazzo... sono insorti stanotte.
--Insorti?... e le armi?... e i capi?...
--Le armi eran giunte di nascosto da Girgenti... loro capo è Cletto
Navarro.
--Cletto?...
--Sì, maggiore.
--Maledizione! tutto a rovescio! oh foss'io il monarca!
--Maggiore...
--Che volete, tenente?
--Attendo gli ordini.
--Comandate la raccolta... fra mezz'ora... a Villalba.
Frazitto, allorchè l'uffiziale fu lontano, gettò la carta in atto di dispetto,
e tolta rabbiosamente dalla tavola la spada se la cinse percuotendola
sull'ammattonato. Trasse poi dalle borse le pistole, le sgrillettò,
caricolle e riposele. Indi rivolto alla guardia, ordinò che gli sellasse il
cavallo, ed uscì.
Al suo comparire i tamburri rullarono, squillarono le trombe. I soldati
al segno circondarono i fasci, e riprese le armi, si disposero in fila. I
capitani li ordinarono in colonna e sguainate le sciabole salutarono la
bandiera.
Poco dopo il maggiore salì a cavallo, e postosi alla testa della truppa,
lasciò la piazza e calò alla volta del fiume. Ma Frazitto non aveva
ancora percorsa l'ultima via di Cammarata, che un uomo tutto
polveroso e sudato gli gridò fermandolo collo smaniar dei cenni:
--Maggiore, Cletto Navarro è a Mussomeli... la mischia vi è
impegnata... correte all'aiuto...
Quell'uomo era Buscemo Stampace.
Uscito dal quartiere del capitano Orlando, tutto pauroso d'incontrar
qualche cittadino che gli scorgesse incisa in fronte la grave nota
dell'infamia, aveva attraversato per viottoli e viuzze il sobborgo ed era
sbucato sulla piazza dei portici, appunto nel medesimo istante in cui vi
ponevan piede Fuoco e Bino. Benchè messo in sospetto dalla presenza
di tanta moltitudine, Buscemo ebbe presto ravvisati i due patrioti;
epperò sguizzando curvo e tremante tra persona e persona sgattaiolò e
raggiunse assai prima di essi il viale, fermo nella speranza d'intanarsi a
Villalba. Le grida di guerra delle genti di Cletto gli tolsero ogni fiducia
di scampo, quindi scavalcata la siepe s'appiattò nell'oscurità dei campi e
lasciò che gl'insorti, correndo e vociando, entrassero in paese e
s'allontanassero. Passato il pericolo, si rizzò, prese a tutta corsa la via
del monte e senza mai darsi riposo, ombroso e trepido sempre, ravvisò
ben presto i tetti di Cammarata. Rifatto il respiro, già entrava nel
villaggio, allorchè s'incontrò, come viddimo, nel Frazitto, cui infatto
s'indirizzava.
--A Mussomeli dunque!--gridò il maggiore; ed indicato a Stampace un
cavallo a lui vicino perchè lo montasse, e così seguisse con qualche
agio la colonna, riordinò la partenza e a passi celeri camminò verso il
borgo ribelle.
Appena costoro ebbero perduto di vista Cammarata, sul balcone del
palazzo stesso nel quale Frazitto era soggiornato fu inalberato lo
stendardo tricolore, ed Enzo apparendo nel vano delle imposte
spalancate salutò la folla col sacro grido:
--Viva la libertà!
--Evviva Enzo!--rispose il popolo, e accalcatosi nella corte fe' suo capo
l'ardito cospiratore. Il quale, solitario e prudente, aveva osservato e
calcolato, scritto a Pardo, tenute salde le fila della congiura tra Palermo
e
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