pure d'oro.
La popolana mise tutto da parte e constatato con piacere che su quel
corpicino di una bianchezza nivea, non eravi la minima scalfittura, si
adoperò a tutta possa per far rinvenire la bambina. Difatti questa non
tardò ad agitarsi, ad aprire gli occhi, balbettando:
--Mamma, mamma.
Annetta fu assalita da una commozione straordinaria a quella vocina
dolce, carezzante.
Si chinò a baciare la bambina, che sorrise ripetendo:
--Mamma.
--Non sono io la tua mamma, cara, ma sento già di amarti come tale.
Dimmi chi sei, come ti chiami.
La bambina la fissava con due begli occhi di un azzurro profondo, dallo
sguardo un po' trasognato, smarrito. Balbettò alcune parole
incomprensibili, poi si mise a piangere.
Alla popolana sorse l'idea che la fanciulletta potesse aver fame. Corse
ad una madia, dove trovò ancora un pane assai duro, ne inzuppò alcune
fette in un bicchiere di vino e gliele portò.
La bambina si mise a mangiare avidamente. Annetta l'imitò. Il sole
brillava nella stanza riempiendola di calore, di allegrezza. Un senso di
benessere infinito invadeva il cuore della popolana. Ebbe per un istante
il pensiero di nascondere gelosamente quella piccina, conservarla per sè
sola. Come avrebbe rallegrata la sua solitudine, riempito il suo cuore!
Quanti baci, carezze, cure infinite, avrebbe avute per lei!
Ma quasi tosto provò un brivido di rimorso; quella creaturina doveva
avere una madre, che forse in quell'istante la piangeva, la chiamava con
grida disperate.
La popolana non poteva mentire al suo cuore: non pensò più alla
propria felicità, ma grande d'abnegazione, consolandosi all'idea della
gioja che avrebbe procurata a quella madre, si mise tosto a farne ricerca.
Ma per quanto s'informasse, mettesse in moto vicini ed amici, non potè
trovare alcuna traccia dei parenti di quella fanciullina, nè giunse mai a
sapere da chi fosse stata posta sulla soglia del suo uscio e da chi
provenisse quel sangue, dal quale aveva aspersi i candidi abitini.
La bambina non era in grado di dare spiegazioni: l'unica parola che
uscisse chiara dai suoi rosei labbruzzi era quella di «mamma»
Annetta non ebbe allora più scrupoli di tenerla con sè e in memoria del
suo Mario, l'adorato marito, la chiamò Maria, Gli anni passarono senza
portare maggior luce sul mistero della trovatella e la popolana finì col
non pensarci più e considerarla come una sua vera figlia.
Annetta aveva da parte un buon gruzzolo, perchè il mestiere
d'armaiuolo esercitato dal marito gli aveva dati molti guadagni e
permesso delle economie.
La popolana spese una parte di quel denaro per far istruire la fanciulla e
quando Maria compì il quattordicesimo anno, secondo i calcoli fatti da
Annetta, la mise presso una sua amica, una buona vedova, che aveva un
negozio da guantaja, assai rinomato, sul Corso di Porta Vittoria, onde
l'iniziasse al suo mestiere.
E l'anno dopo, essendo la vedova improvvisamente morta, Annetta
rilevò dagli eredi il negozio, pagando tutto a pronti contanti e andando
a stabilitisi definitivamente con Maria.
La giovinetta si faceva ogni giorno più bella e bisognava vedere con
quanta grazia e sveltezza sapeva servire gli avventori e come teneva in
ordine i libri di negozio.
La popolana, un po' indebolita di forze, per una malattia alle gambe,
sedeva abitualmente dietro al banco, contemplando come in estasi
quella bella creatura, che aveva il potere di rianimarla, farla sorridere,
sviare dalla sua mente un cumulo di tristi memorie.
Annetta aveva nascosto a Maria in qual modo era divenuta sua figlia,
perchè l'avvenuto era svanito come un sogno dalla mente della fanciulla.
Questa credeva la popolana sua madre ed i vincoli d'affetto che univano
quelle due buone creature, si facevano ogni giorno più saldi.
A vent'anni, Maria si mostrava in tutto il pieno sviluppo della sua
bellezza affascinante. Aveva avute parecchie richieste di matrimonio,
che sempre rifiutò, dicendo di trovarsi troppo felice al fianco di sua
madre per desiderare altra sorte. Non aveva ancora amato. Eppure nelle
sue vene scorreva un sangue caldo, impetuoso, aveva la fantasia
vivacissima e l'avventura di quella notte colla maschera misteriosa, la
gettò bruscamente in un mondo d'idee nuove per lei e perciò appunto
più pericolose.
Invano la bella guantaja cercò dormire: nell'ombra della stanza, vedeva
sempre l'immagine dello sconosciuto, sentiva ancora sulle sue labbra il
tocco bruciante delle labbra di lui.
L'alba la sorprese cogli occhioni spalancati, il viso pallido, abbattuto, le
labbra frementi, che mormoravano quasi inconscie:
--Chi sarà mai? Lo rivedrò io ancora?
CAPITOLO TERZO.
Il segreto di un milionario.
Erano le cinque di sera. In un salottino appartato, caldo, elegantissimo
di uno dei più sontuosi palazzi di Milano, sdraiato su di una poltrona,
stava un uomo di una sessantina d'anni, dal sembiante triste e
corrucciato.
Indossava una veste da camera di grosso drappo scarlatto, guernita di
passamani d'oro: la testa portava nuda, perchè i capelli erano ancora
foltissimi, tagliati a spazzola, grigiastri
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