la mia angoscia Lei che sa in quali circostanze
mi trovassi nel gennaio del 1872. Mi tenevo allora già legato e forse per
sempre. Quando penso alla origine e alla natura di quel legame mi
viene alle labbra un sorriso amaro, compiango la signora, compiango e
derido me stesso. Di questo legame si è parlato nel mondo, falsamente;
e non è male ch'io ne debba scrivere qualche cosa qui. Ella sa ch'io
conosceva da molto tempo quella bella e intelligente dama, a cui il
mondo attribuiva, prima che le relazioni nostre si facessero più strette,
un amante. Andavo qualche volta da lei e c'incontravamo spesso in
società. Credevo d'esserle affatto indifferente e la ricambiavo
d'indifferenza; ma poche persone mi ponevano, come lei, in vena di
spirito sarcastico. Una sera, a teatro, incontrai due volte col mio
binoculo il suo rivolto a me, e la seconda volta ella sostenne alquanto il
mio sguardo, prima di volgersi altrove. Credetti averne il cuore
lievemente tocco, ma forse erano invece i nervi della vanità e della
curiosità che simulavano un palpito. Attesi e ottenni ancora spesso
quello sguardo: poi visitai la dama nel suo palchetto. Ella ebbe con me
un contegno affatto nuovo, e mi diede, in presenza di altre persone, così
evidenti segni di favore da imbarazzarmi. Mi figurai, andando a casa,
d'esserne innamorato, e mi figurai in pari tempo che glielo dovevo dire.
Adempiei questo imperioso dovere due giorni dopo. Si trattava di una
signora maritata, ed è mia maggior colpa l'aver ceduto allora non alla
violenza del vero amore, bensì ad un'ombra vana di amore. Ella mi
rispose di essere dolentissima delle mie parole. Soggiunse, con mia
grande sorpresa, che s'era accorta da un pezzo di questa simpatia, che
non poteva nascondermi una certa inclinazione per me seguitane da
parte sua, ma che avrebbe preferito non si fosse parlato mai, fra noi, di
questo. Era risoluta di non mancare ai suoi doveri. Prima sarebbe stato
possibile vedersi con molta frequenza ed intimità, come amici; adesso
non era più da pensarvi. Mi consigliò di soffocare il mio amore che non
poteva aver messe ancora profonde radici; così si sarebbe potuto fra
qualche tempo godere in pace i beneficii di una pura e intima amicizia
di cui avevamo forse bisogno ambedue.
Allora mi avvidi con sgomento che non l'amavo affatto, tanto mi gelò
questo discorso; mi dissi ch'ero caduto da stupido nel laccio d'una
civetta sleale, ma pure mentii per un falso sentimento d'onore, non
accettai l'uscita ch'ella mi offriva, le risposi che l'amicizia non poteva
bastarmi. Iddio sa se fui punito di una tale viltà, quando la raccontai
palpitando a lei, insieme a tutti i falli, a tutte le miserie che mi
rendevano indegno di quell'amore sublime. Una tenera parola grave, un
bacio delle sue labbra mi hanno rifatto puro, come ci rifà puri l'onda
d'infinito che passa talvolta per l'anima nostra dopo la preghiera; non
sento più dolore nè vergogna di quel passato.
Tale fu l'origine del mio legame. Non credo che neppure la signora
m'abbia veramente amato mai. Credo che le dicerie sparse prima
d'allora su lei e il marito d'un'amica sua fossero false; ch'ell'abbia
pensato un modo, poco felice, di smentirle; che la vanità l'abbia indotta
a sceglier uno che scriveva versi di cui la gente e i giornali qualche
volta parlavano; che finalmente ell'avesse una certa curiosità
intellettuale dell'amore, forse anche un certo bisogno morale di
emozioni, un inesplicabile bisogno di soffrire o far soffrire, tanto per
sentir fortemente questa vita senza tuttavia porre l'altra in pericolo. Mi
disse infatti che se volevo amarla con un affetto contenuto dal dovere
non poteva vietarmelo, ma che saremmo stati infelici ambedue.
Ell'avrebbe anche il rimorso di allontanarmi dal matrimonio, così
desiderabile a me, rimasto senz'altri parenti che un fratello ammogliato;
e l'età mia non pativa lunghi indugi. Più mi confortava a staccarmi da
lei, più resistevo, più mi sentivo legare e stringere.
Che anno infelice fu quello per me! Qualche volta m'illudevo di amare
la signora, e allora m'irritavo di trovarla sempre così rigida e sicura
nella sua virtù, così padrona di sè. Molto più spesso mi sentivo freddo e
soffrivo di esser falso, soffrivo delle esigenze di lei che, dicendosi
gelosa della mia musa, avrebbe voluto regnar sola nel mio intelletto,
ispirarmi secondo le sue idee e le sue inclinazioni. Non difettava
d'ingegno nè di coltura, ma se tra me e Lei, cara amica, vi è forse
troppa affinità d'anima, ve n'era invece troppo poca fra me e quella
signora. Ell'aveva la religione dell'eleganza. Non la sola eleganza della
persona o delle vesti era in lei seducente; anche la forma di ogni
menomo gesto, della parola, di tutto il contegno era squisita. Ciò mi
attraeva, ma ella portava questo culto anche nell'arte, e qui vi era nella
nostra relazione una scissura
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