I demagoghi | Page 5

Cesare Monteverde
templi di Bacco. La porta di essa, lungi dall'essere
verticale, era orizzontale alla via, cioè consisteva in una apertura
quadra della dimensione di due braccia di larghezza e altrettante di
lunghezza, la quale aveva un coperchio che, dalla parte superiore
alzandosi a guisa di una grande scatola, lasciava vedere gli scalini di
una scala tortuosa e scura, in fondo alla quale stava la prima sala
dell'osteria. Questa sala, o piuttosto cantina, non aveva palco, era a
volta, nera ed umida: accanto ad essa erano altre tre stanze, una ad uso
di cucina, l'altra ad uso di salotto, la terza ad uso di camera; in
quest'ultima si vedevano tre botole le quali mettevano in altrettanti
anditi sotterranei, destinati a ricevere l'onesto prodotto della così detta
busca dei veneziani livornesi, nome con cui da costoro viene appellato
quel giornaliero lor modo d'impadronirsi della roba altrui. La polizia,
non che visitare quell'antro, prendeva ogni cura di allontanarsene
quando era in ufficio di vigilanza, mentre peraltro non era raro al
taverniere dei Tre Mori l'avere ad annoverare fra i suoi clienti qualche
onesto famiglio del bargello.
Sonavano le dieci. Nella caldaia sul fuoco del camino bolliva un brodo

di dentice, condito con peperoni rossi e cannella; pronta a friggere i
totani era la padella, e la cuoca già ne infarinava alcuni ed altri ne
asciugava ad un lino.
La cuoca era una giovane tra i quindici e i sedici anni, bruna di capelli
come una Rebecca, grassoccia e di forme ben complesse: nella treccia
accuratamente pettinata stavale confitto uno spillo con manico di rame
dorato, spillo per altro che per le sue dimensioni e per la sua lama
poteva piuttosto convenientemente appellarsi un pugnale; il collo e le
braccia, nudi, avevano collane e braccialetti di grosso corallo rosso. La
fanciulla copriva le spalle con una pezzuola di seta gialla a fiori, di
quelle allora dette dell'Indie; aveva un busto ricamato a rabeschi, la
gonnella corta, il grembiule di seta rosso, due scarpette che facevano un
piedino d'incanto: essa aveva nome Concetta. Accanto al camino si
vedeva un giovane di bassa statura, di faccia bronzina, con capelli
crespi come quelli dei Mori, con largo petto e di atletica forma; costui
aveva una di quelle facce che ti atterriscono al primo guardarle; al suo
abbigliamento totalmente marinaresco si ravvisava, senza
domandargliene, la sua professione. Ei sedeva su di una rozza panca di
legno, aveva le mani incrocicchiate sul petto, stendeva sbadatamente le
gambe in avanti e teneva una pipa in bocca dalla quale partivano grosse
nuvole di fumo di un tabacco così acuto e forte da far venire
(specialmente in quel luogo, che non aveva altro sbocco di aria tranne i
camini e la porta) a chi men robusto dei clienti dell'oste dei Tre Mori
una congestione cerebrale. Il nostro giovinotto sembrava dover essere
in molta buona grazia della giovane cuciniera, giacchè per vezzo
talvolta procurava di porre un piede fra mezzo a quelli di lei, come per
farla cadere a terra quando si moveva dal camino; e talvolta la
immergeva in una nube di fumo che le scaricava sul viso: e la fanciulla
corrispondeva a tali amorosi scherzi col toccare il marinaro con le
molle uscite dal fuoco o con gettargli nella pipa gli spruzzi del brodo
del dentice. Onesti passatempi, che l'oste, padre della fanciulla, non
vedeva, che la madre di lei approvava, e di cui il resto degli ospiti
rideva. Nella serata di cui narriamo, la taverna conteneva proprio
persone direi quasi di famiglia, cioè intimi di essa. Vi era cena e cena
frugale; volevasi da costoro festeggiare il carnevale, ma non
festeggiarlo in maschera; festeggiarlo col rhum, col ginepro di Olanda,

col vino e con una buona mangiata. Gli ospiti che attendevano fosse
preparata la mensa erano cinque, senza il giovane che accennammo,
senza l'oste, sua moglie, e la figlia; e quei cinque colà conosciuti sotto
nomi che al di fuori non avevano, per essere l'osteria dei Tre Mori un
mondo particolare. Costoro, dei quali andiamo a dare una brevissima
biografia, li chiameremo come li chiamavano laggiù.
Il Topo. Costui è un uomo di cinquant'anni, piccolo di statura con
mento e naso aguzzo, senza barba, perchè solito a farsela radere tutti i
giorni; il suo mestiere è quello dell'imballatore, e perciò la sua scarsella
provvista sempre di una guaina ove, come nel suo fodero, sta un
enorme coltellaccio affilato più che rasoio, ed è accompagnato da aghi
lunghi un sesto di braccio, larghi mezzo quattrino, taglienti ed acuti,
che ponno all'occorrenza servire di arme micidialissima. Il Topo è stato
dieci anni in galera per omicidio, trenta mesi in Barberia sulle coralline
per furto; la sua memoria non sa contare i giorni di carcere e le
bastonate collo staffile che ha sostenuto per contravenzione ai precetti
di polizia. D'altronde è un uomo religiosissimo che, piuttosto
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