dir ad
Eufranone suo padre.
DON FLAMINIO. Non spaventarti per questo, ché le donne al
principio sempre si mostrano cosí ritrose: si ammorbiderá ben sí. Ma
abbi pazienza, Leccardo mio, ché de' colpi delle sue mani non ne
morrai.
LECCARDO. Le tue belle parole non m'entrano in capo e mi levano il
dolore e la fame.
DON FLAMINIO. Faremo che Panimbolo ti medichi e ti guarisca.
PANIMBOLO. Io ho recette esperimentate per le tue infirmitá.
LECCARDO. Dimmele, per amor de Dio!
PANIMBOLO. Al gorguzale ci faremo una lavanda di lacrima e di vin
greco molte volte il giorno.
LECCARDO. Oh, bene! ho per fermo che tu debbi essere figlio di
qualche medico. E se non guarisce alla prima?
PANIMBOLO. Reiterar la ricetta.
LECCARDO. Almeno per una settimana! Che faremo per li denti?
PANIMBOLO. Uno sciacquadenti di vernaccia di Paula o di vin
d'amarene.
LECCARDO. Tu ti potresti addottorare. Ma per far maggior operazione
bisognarebbe che i liquori fusser vecchi.
PANIMBOLO. N'avemo tanto vecchi in casa c'hanno la barba bianca.
LECCARDO. E per lo stomaco poi?
PANIMBOLO. Bisogna tôr quattro pollastroni e fargli buglir ben bene,
e poi colar quel brodo grasso in un piatto e porvi dentro a macerar fette
de pan bianco, e accioché non esalino quei vapori dove sta tutta la virtú,
bisogna coprir ché venghino ben stufati, poi spargervi sopra cannella
pista, e sará un eccellente rimedio. All'ultimo, un poco di caso
marzollino per un sigillastomaco.
LECCARDO. Veramente da te si devriano tôrre le regole della
medicina. Andamo a medicar presto, ché m'è salito addosso un appetito
ferrigno, e tanta saliva mi scorre per la bocca che n'ho ingiottito piú de
una carrafa. La medicina n'ha reinfrescato il dolor delle piaghe e m'ha
mosso una febre alla gola che mi sento mancar l'anima.
PANIMBOLO. Con certe animelle di vitellucce ti riporrò l'anima in
corpo.
LECCARDO. Se fussi morto e sepellito resuscitarei per farmi medicar
da voi. Don Flaminio, avessi qualche poco di salame o di cascio
parmigiano in saccoccia?
DON FLAMINIO. Orbo, questa puzza vorrei portar adosso io?
LECCARDO. Ma che muschio, che ambra, che aromati preziosi
odorano piú di questi?
DON FLAMINIO. Leccardo mio, come io so medicar i tuoi dolori, cosí
vorrei che medicassi i miei!
LECCARDO. Non dubitar, ché quando toglio una impresa, piú tosto
muoio che la lascio.
DON FLAMINIO. Vieni a mangiar meco questa mattina.
LECCARDO. Non posso: ho promesso ad altri.
DON FLAMINIO. Eh, vieni.
LECCARDO. Eh, no.
PANIMBOLO. (Mira il furfante! se ne muore e se ne vuol far pregare).
DON FLAMINIO. Fa' ora a mio modo, ch'una volta io farò a tuo modo.
LECCARDO. Son stato invitato da certi amici ad un buon desinare, ma
vo' ingannargli per amor vostro.
DON FLAMINIO. Va' a casa e ordina al cuoco che t'apparecchi tutto
quello che saprai dimandare, e fa' collazione; tratanto che sia
apparecchiato, serò teco, ché vo per un negozio.
LECCARDO. Ed io ne farò un altro e sarò a voi subbito. (Vedo il
capitan Martebellonio. Non ho visto di lui il maggior bugiardo; sta
gonfio di vento come un ballone e un giorno si risolverá in aria. Ha
fatto mille arti, prima fu sensale, poi birro, poi aiutante del boia, poi
ruffiano; e pensa con le sue bravate atterrire il mondo, e stima che tutte
le gentildonne si muoiano per la sua bellezza). Ben trovato il bellissimo
e valorosissimo capitan Martebellonio!
SCENA IV.
MARTEBELLONIO capitano, LECCARDO.
MARTEBELLONIO. Buon pro ti faccia, Leccardo mio!
LECCARDO. Che pro mi vol far quello che non ho mangiato ancora?
MARTEBELLONIO. So che la mattina non ti fai coglier fuori di casa
digiuno.
LECCARDO. E che ho mangiato altro che un capon freddo, un pastone,
una suppa alla franzese, un petto di vitella allesso, e bevuto cosí alto
alto diece voltarelle?
MARTEBELLONIO. Ecco, non ti ho detto invano il «buon pro ti
faccia».
LECCARDO. Quelle cose son digeste giá e fatto sangue nelle vene; ma
lo stomaco mi sta vòto come un tamburro. Ma voi adesso vi dovete
alzar da letto e far castelli in aria, eh?
MARTEBELLONIO. Ho tardato un pochetto, ché ho atteso a certi
dispacci.
LECCARDO. Per chi?
MARTEBELLONIO. Per Marte l'uno e l'altro per Bellona.
LECCARDO. Chi è questo Marte? chi è questa Bellona?
MARTEBELLONIO. Oh, tu sei un bel pezzo d'asino!
LECCARDO. Di Tunisi ancora.
MARTEBELLONIO. Non sai tu che Marte è dio del quinto cielo, il dio
dell'armi? e Bellona delle battaglie?
LECCARDO. Che avete a far con loro?
MARTEBELLONIO. Non sai che son suo figlio e son lor luogotenente
dell'armi e delle battaglie in terra, com'eglino tengono il possesso
dell'armi nel cielo? però il mio nome è di «Marte-bellonio».
LECCARDO. E per chi gli mandate il dispaccio?
MARTEBELLONIO. Per un mozzo di camera.
LECCARDO. Come? gli attaccate l'ale dietro per farlo volar nel cielo?
MARTEBELLONIO. L'attacco le lettere al
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