se per altre
cortigianucce di nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa tu che
farebbomo per costoro; e questa ingiuria io la sopporterei piú volentieri
da ogni uomo che da mio fratello.
PANIMBOLO. Egli da quel giorno della festa è divenuto un altro.
Parla talvolta, sta malinconico, mai ride, mangiando si smentica di
mangiare, dove prima mangiava per doi suoi pari, la notte poco dorme,
sta volentieri solo, e standovi sospira, s'affligge e si crucia tutto.
DON FLAMINIO. Io ho osservato in lui tutto il contrario.
PANIMBOLO. Perché si guarda da voi solo; né mai lo veggio ridere o
star allegro se non quando è con voi. Di piú, non è mai giorno che non
passi mille volte per questa strada dinanzi alla sua casa.
DON FLAMINIO. Io non ve l'ho incontrato giamai.
PANIMBOLO. Deve tener le spie per non esservi còlto da voi; e quella
arte, che voi usate con lui, egli usa con voi. Ma io vi giuro che quante
volte m'è accaduto passarvi, sempre ve l'ho incontrato.
DON FLAMINIO. Oimè, tu passi troppo innanzi, mi poni in sospetto e
m'ammazzi. Ma come potrei io di ciò chiarirmi?
PANIMBOLO. Agevolissimamente: subbito che l'incontrate, diteli che
il conte è contento dargli li quarantamila scudi purché la sposi per
questa sera; e se non troverá qualche scusa per isfuggir o prolungar le
nozze, cavatemi gli occhi.
DON FLAMINIO. Dici assai bene; e or ora vo' gir a trovarlo e fargli
l'ambasciata.
PANIMBOLO. Ascoltate: dateli la nuova con gran allegrezza e mirate
nel volto e negli occhi, osservate i colori--ché ne cambierá mille in un
ponto: or bianco or pallido or rosso,--osservate la bocca con che finti
risi; in somma ponete effetto a tutti i suoi gesti, ché troverete quanto ve
dico.
DON FLAMINIO. Cosí vo' fare.
PANIMBOLO. Ma ecco la peste de' polli, la destruzione de' galli
d'India e la ruina de' maccheroni!
SCENA III.
LECCARDO parasito, PANIMBOLO, DON FLAMINIO.
LECCARDO. Non son uomo da partirmi da una casa tanto misera
prima che non sia cacciato a bastonate?...
PANIMBOLO. (Leccardo sta irato. Ho per fermo che non ará leccato
ancora, ché niuna cosa fuorché questa basta a farlo arrabbiare).
LECCARDO.... È forse che debba soffrir cosí miserabil vita per i grassi
bocconi che m'ingoio: una insalatuccia, una minestra de bietole come
fusse bue? bel pasto da por innanzi alla mia fame bizzarra!...
PANIMBOLO. (Ogni sua disgrazia è sovra il mangiare).
LECCARDO.... Digiunar senza voto? forse che almeno una volta la
settimana si facesse qualche cenarella per rifocillar i spiriti!...
DON FLAMINIO. (L'hai indovinata: non ha mangiato ancora).
LECCARDO.... Però non è meraviglia se mi sento cosí leggiero: non
mangio cose di sostanza....
DON FLAMINIO. (Lo vo' chiamare).
PANIMBOLO. (Non l'interrompete, di grazia: dice assai bene, loda la
largitá del suo padrone).
DON FLAMINIO. Volgiti qua, Leccardo.
LECCARDO. O signor don Flaminio, a punto stava col pensiero a voi!
DON FLAMINIO. Parla, ché la tua bocca mi può dar morte e vita.
LECCARDO. Che! son serpente io che con la bocca do morte e vita?
La mia bocca non dá morte se non a polli, caponi e porchette.
PANIMBOLO. E li dái morte e sepoltura ad un tempo.
DON FLAMINIO. Lasciamo i scherzi: ragionamo di Carizia, ché non
ho maggior dolcezza in questa vita.
LECCARDO. Ed io quando ragiono di mangiare e di bere.
DON FLAMINIO. Narrami alcuna cosa: racconsolami tutto.
LECCARDO. Ti sconsolerò piú tosto.
DON FLAMINIO. Potrai dirmi altro che non mi ama? lo so meglio di
te. L'incendio è passato tanto oltre che mi pasco del suo disamare: di'
liberamente.
LECCARDO. Vedi questi segni e le lividure?
DON FLAMINIO. Tu stai malconcio: chi fu quel crudelaccio?
LECCARDO. La tua Carizia me l'ha fatte.
DON FLAMINIO. Mia? perché dici «mia», se non vuoi dir
«nemica»?--Ma pur com'è passato il fatto?
LECCARDO. Oggi, perché stava un poco allegretta, lodava la sua
bellezza; ella ridea. Io, vedendo che sopportava le lodi, prendo animo e
passo innanzi:--Tu ridi e gli assassinati dalla tua bellezza piangono e si
dolgono, ché quel giorno che fu festa de' tori innamorasti tutto il
mondo!--Ella piú rideva ed io passo piú innanzi:--E fra gli altri ci è un
certo che sta alla morte per amor tuo!...
DON FLAMINIO. Tu te ne passi troppo leggiermente: raccontamelo
piú minutamente.
LECCARDO.... A pena finii le parole, che vidi sfavillar gli occhi come
un toro stuzzicato, e la faccia divenir rossa come un gambaro. Tosto mi
die' un sorgozzone che mi troncò la parola in gola; e dato di mano ad
un bastone che si trovò vicino, lo lasciava cadere dove il caso il portava,
non mirando piú alla testa che alla faccia o al collo. Cadei in terra; mi
die' colpi allo stomaco e calci che se fusse stato un ballone me aría fatto
balzar per l'aria, ingiuriandomi «roffiano» e che lo volea
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