un vecchio adorato che considera la colpa del figlio come una disgrazia della sorte. è in piedi d'un balzo, riasciuga la faccia lagrimosa, si guarda intorno... Meglio così... non era che un sogno. è solo nella sua cameretta, appoggiato alla finestrella che guarda alla buia campagna; i neri fantasmi della vallata tentennano il capo, e le rane proseguono il loro rauco concerto, arrestandosi ogni tanto per ascoltare un altro coro che risponde da lontano.
Ci ha tanto pensato, sono molti giorni che ci pensa di continuo; che vale arrestarsi ancora in quell'immagine? No, egli non avrà mai il coraggio di dare a quel povero cuore di padre una simile angoscia, di vedere la serenità di quelle sembianze adorate sparire ad una parola. Meglio morire!
Meglio morire! E sprofonda l'occhio nel buio, e vi si avventa col desiderio. Potesse tuffarsi nell'infinito che gli sta dinanzi, distruggersi o dimenticarsi nella vertigine degli atomi che corrono nello spazio! Si ferma un istante a questo pensiero gigantesco e vi confronta la piccola causa del suo immenso affanno, ma non ne ritrae forza; tutto in quell'arcano gli par grande ad un modo, la parabola della lucciola, stella delle zolle, la parabola della stella cadente, lucciola dell'infinito. Ogni grandezza è vana, tranne quella del proprio affanno. Meglio morire!
Donato esce dalla sua camera, porge l'orecchio nel corridoio, non ode alcun rumore, rientra, afferra una rivoltella, la guarda, poi lascia cadere il braccio lungo il fianco, ascolta ancora... Nessuna voce lo trattiene; ha paura di sè stesso, fugge, scende le scale, esce all'aperto coll'arma in pugno, e si caccia in un viale che mena al boschetto. Tacciono le rane per lasciarlo passare, poi gli gridano dietro la loro rauca beffa. Ed egli fugge sempre brandendo l'arme funesta; finalmente si ferma, si butta al suolo, ritrova un singhiozzo.
Un uccello che ha avuto paura si è levato a volo per mutar letto, poi tutto tace, anche le voci beffarde della notte; poi sulle creste dei monti si disegna una striscia di oro pallido--è l'alba.
Una rondine mattiniera passa come una freccia e garrisce per svegliare il vicinato; un'altra rondine le risponde, poi un'altra, fin che l'aria si empie di garriti e di voli. Donato guarda a quelle creature agili e festose che volteggiano sul suo capo; da ogni cespuglio, da ogni zolla si avventano al cielo cento gaie personcine; sulla cima d'ogni albero è una conversazione animata, ed ogni ramoscello dondola al picciolo peso di quella turba saltellante e ciarliera, mentre da lontano i galli del paesello si rimandano la loro strofetta baldanzosa.
Donato segue sbadatamente coll'occhio quei voli, ascolta quelle ciancie, e si dimentica. La luce ha messo in rotta tutti i fantasmi paurosi, e sveglia la vita da per tutto; i monti par che si sollevino or ora dal piano, le querele e le acacie e gli alberelli e i fili d'erba si parano delle loro goccioline di rugiada per far festa al sole. A poco a poco la luce si fa più viva, penetra più addentro nelle boscaglie, nei cespi, nei pruneti, poi il sole si affaccia con quattro raggi alle giogaie lontane, e finalmente si leva maestoso, fruga in ogni cantuccio più riposto, costringe ogni più tetra creatura a rimandargli con un riflesso il suo sorriso amoroso.
Donato si guarda intorno; è in un breve spazzo scoperto, accanto alla silenziosa sorgente dove in altri tempi venne tante volte assetato; tutt'in giro gli alberi gli fanno siepe, presso al sentierolo è un formicaio che un raggio di sole ha svegliato or ora alle grandi faccende d'ogni giorno; una talpa, rimasta fuor di casa più tardi dell'usato, attraversa il sentiero come una palla nera e rientra nel suo piccolo labirinto; dormono i grilli e si destano le cicale stridule; nelle zolle, fra filo e filo d'ogni erba, è un brulichio di creature che ripigliano la vita festose; le portulache silvestri schiudono alla loro esistenza d'un giorno la pompa dei vivaci colori; lontanamente si ode il muggito dei buoi e il grido di un contadino che passa nella via maestra dove finisce il boschetto, e lo strider di ruote d'un carro sulla ghiaia.
Donato si sente ancora tornar come fanciullo quando amava la vita, quando lo impauriva la morte, quando ogni pensiero era avvenire, festa ogni sentimento. Ed ora!
Che farà ora il babbo? Che farà la sorellina? Dormono; i loro volti soavi sono composti alla serenità; non anco li ha turbati l'annunzio di una sciagura! E quale sciagura!
Guarda all'arme che gli sta accanto. Uccidersi! A ventidue anni, quando del mondo non si ha ancora visto nulla, quando di cento affetti non si ha ancora palpitato, e si ha il sangue ribollente, e i muscoli ferrei, e il pensiero gagliardo, e più gagliarda la fede negli uomini e nell'avvenire!
Pure sente che non avrà mai forza di confessare al babbo la propria colpa e di rimanere al
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