Carta bollata | Page 5

Salvatore Farina

Gottardo e fermarsi a Lugano; quando il forestiero sappia che a Lugano
vi sono io, vorrà fare una visita al mio studio. Chissà quante belle
migliaia di franchi in oro metterò da parte senza dare un centesimo al
mio caro esattore. E quando avrò le migliaia, potrò forse pensare...»
A che cosa? Egli interruppe il proprio pensiero, perchè gliene venne un
altro.
--Sì, ma a Lugano non vi è la Chiesa delle Grazie, non vi è il Cenacolo
di Leonardo da Vinci; e come faccio io?
Fu uno sgomento di poca durata. Giusto poteva farsi una copia di
Cenacolo per servire a farne poi altre; una seduta in faccia all'affresco
originale accontenterebbe il compratore più difficile.
Sta bene, e ora poteva proseguire la sua via crucis, visitare, se fosse
necessario, i cugini a uno a uno, e con molta filosofia penetrare tutte le
difficoltà di ottenere mille lire in prestito. Erano giunte le otto, l'ora
dell'orologiaio di Ponte Vetero.
Giusto si avviò con animo deliberato.

II.
Il cugino Venanzio, giovinetto allegro la sera, quando il suo negozio
era andato bene, aveva la mattina un umore intrattabile; la impazienza
che si presentasse il primo affare, senza del quale come sapete non è
possibile mai fare il secondo, gli dava un'aria inquieta e scontenta, che
non cresceva nulla ai vezzi della sua persona. Alle otto in punto ogni
mattina, nell'atto di aprire la bottega, dimenticava le amiche della notte

per non pensare ad altro che al suo commercio e agli agenti della
questura, i quali potrebbero capitargli in bottega quando meno se lo
sognasse per fare molte ricerche inutili.
Quando Giusto si presentò, Venanzio era mille miglia lontano da lui; e
per un poco, intento a ripulire la mostra, non si avvide nemmanco del
suo parente.
Ma il pittore, preparato a ogni sorta di incontri nella via crucis, non si
smarrì di animo.
--Venanzio, disse con voce robusta; e ripetè ancora: Venanzio.
Venanzio si volse verso di lui, tentando un sorriso che riuscì una
smorfia.
Giusto non perdè un minuto di tempo per informarlo del suo bisogno;
l'altro, senza smettere le proprie occupazioni, gli parlò così:
--Ti hanno ingannato, sai, ti hanno proprio ingannato; io non posseggo
un soldo; tutta questa roba che vedi non è pagata, e se non la vendo, la
ridò a chi me l'ha data per la mostra; appena appena ne ricavo,
ammazzandomi tutto il giorno al banco, tanto da mangiare e vestirmi.
Tu lo sai, io sono come te, scapolo ancora; e perchè sono scapolo a
trentasei anni sonati? Perchè ho paura del matrimonio e della
figliolanza, e ne ho paura perchè sono povero.
Giusto non si lasciò commuovere da quelle dichiarazioni e franco
franco ribattè così:
--Aspettavo che mi dicessi questo, perchè so quanto guadagni e quanto
sei avaro di giorno; so pure che non prendi moglie, perchè la notte
all'Eden, alla Follia e in altri luoghi, trovi quante mogli fanno al caso
tuo. Ma io non chiedo un prestito senza interessi, che sarebbe
un'ingenuità, sono venuto a proporti un negozio; se mi dai mille lire te
le renderò col dieci per cento fra un anno, e anche prima.
Venanzio non ebbe nemmeno il tempo di riflettere, come sembrava

volesse fare, perchè un brutto ceffo si affacciò alla bottega senza dir
parola.
--Vengo, disse l'orologiaio, e l'uomo sparve.
--Ecco, proseguì Venanzio, continuando ad assestare gli orologi della
mostra; io sono qui per contrattare: non dobbiamo forse far contratti
tutta la vita? ma quando uno chiede che io gli procuri un po' di denaro
che non ho, non posso incomodare la gente che mi vuol bene senza
fargli vedere prima il pegno e consegnarglielo poi. Se tu hai dell'oro
vecchio, dell'argento, ma meglio oro, portalo qua e io ti potrò fare
l'imprestito; così faccio qualche volta; oro e argento; oppure orologi;
ma tu non hai sicuramente una partita d'orologi da sbarazzare; tu non
sei un collezionista.
Lasciò vagare sulle labbra un sorrisetto, ma lo cancellò subito.
--È vero, rispose Giusto, io non sono un collezionista d'orologi.
--Lo vedi! conchiuse Venanzio.
Aveva detto tutto; si affacciò in istrada per vedere se l'uomo di prima
aspettasse, e rialzando il capo verso il suo caro parente senza nemmeno
guardarlo, sembrò dirgli qualche cosa che Giusto intese a volo.
--Stammi bene, disse il pittore, e buoni affari.
Lasciò la bottega e nell'avviarsi al tribunale passò rasente al brutto
ceffo che tornava verso la bottega di Venanzio.
Sebbene fossero le nove sonate, quando Giusto arrivò al Palazzo di
Giustizia, l'usciere non era ancora al telonio a preparare le citazioni e a
radunare le sentenze per notificarle. Che ne era avvenuto? Niente altro
che questo: Ippolito s'era ammalato d'indigestione, volgarità indegna
d'un magistrato, ma che può toccare anche al primo presidente. Giusto
lo troverebbe a casa, a letto.
Queste notizie gli vennero date da
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