curiosa di uomo sicuro del fatto proprio;
nell'androne di sagrestia cominciò a penetrargli nell'animo un dubbio
amaro; e in faccia al reverendo il maestro aveva la fisonomia
somigliantissima d'uno scolaro che non sapesse la lezione.
--Qual buon vento ti porta qui, così di buon'ora? domandò prete
Barnaba, mentre con l'aiuto d'un chierichino infilava la pianeta per la
messa.
--Non è un vento, confessò Giusto, e sopra tutto non è un vento buono;
è un uragano maligno.
Prete Barnaba si fece il segno della croce dinanzi al Cristo di sagristia,
e non rispose verbo perchè fiutava da lontano un gran pericolo.
Giusto, vedendo che gli toccava dir tutto senza incoraggiamenti, chiuse
gli occhi e disse: mille lire!
Prete Barnaba alzò gli occhi al Cristo per dirgli alla muta che
rispondesse lui qualche cosa a quel disgraziato.
--Ma non vedi, mio buon Giusto, che tu sei in un grave errore? come! e
tu non ti eri accorto che io non ho avuto mai mille lire disponibili?
Credi che me ne verrei qui come una rondine a dire la prima messa se
fossi un prete ricco? E con tutta la voglia che ti ho manifestata tante
volte di regalare una Madonna dei sette dolori alla cappella, se non l'ho
fatto prima d'oggi, che significa?
--Ma io... balbettò il gran maestro della scuola lombarda, ma io ti farò
una Madonna di sette dolori che farà piangere i sassi; e sarà d'un metro
e sessanta, come ti piaceva, e se non basta te la farò di due metri. Fa un
sagrifizio per lasciarmi in pace con l'esattore.
Prete Barnaba aveva già la pianeta; si pigliò in mano il calice e
inchinatosi ancora davanti al Cristo in croce mormorò sotto voce una
preghiera prima di avviarsi all'altare.
--Se ascolti la mia messa, potremo parlare ancora del caso tuo, ma da
me non sperare nulla; ti dirò piuttosto di andare da nostro cugino
orologiaio. Quello ha un mucchio di danaro, e per un parente vorrà fare
qualche cosa.
Il gran maestro non fiatò, ma almeno volle risparmiarsi la messa di suo
cugino Barnaba.
Camminando di buon passo sulla via pensava al caso suo, che ora gli
sembrava più difficile che mai.
A quale altro parente doveva rivolgersi ora?
All'orologiaio di Piazza Castello, o all'usciere Ippolito, o a zio Bortolo
macellaio? L'orologiaio apriva il negozio di Ponte Vetero alle ore otto
in punto, l'usciere andava in tribunale non mai prima delle nove, e fino
a quell'ora il negoziante di buoi arricchito dal macello non si
moverebbe dal suo letto. Erano le cinque in punto; e recarsi a casa dei
suoi cugini a quell'ora mattutina a chiedere un prestito di mille lire, non
parve a Giusto molto prudente; se ne andò allo studio a riflettere meglio.
Con la tavolozza in pugno, buttando qua e là qualche pennellata sopra
una di quelle tele destinate a non essere mai finite, che tutti i pittori ne
hanno sempre una almeno, si erano affacciate tutte le migliori idee di
Giusto. Così fece.
Egli aveva appunto una gran tela intitolata il Paradiso terrestre, dove
nello spazio di due metri aveva ammucchiato tutte le seduzioni
dell'inferno; vino colante da brocche rovesciate sulle mense; donnine
seminude addormentate nel dare un bacio a giovinotti brilli, alcuni dei
quali caduti fra le gambe della tavola; dadi e carte da giuoco sulla
tovaglia e in terra, stoviglie d'argento luccicanti al sole affacciato da un
finestrone a guardar lo spettacolo disameno. Quel quadro concepito in
una giornata di orgia, che aveva dato a Giusto una nausea memoranda,
non era stato compiuto per la solita causa, perchè le donnine allegre, le
quali gli avevano servito una volta di modelle, non erano tornate più a
mettersi in posa.
Tuttavia la tela non era stata cancellata, e nei momenti scabri delle sue
giornate il gran maestro vi dava volontieri qualche pennellata per
rinforzare il tono d'un viso baciato dal sole, o un'ombra sotto la tavola,
e per farsi venire le sue idee migliori. Quella mattina l'idea fu questa:
«Io la faccio in barba all'esattore, il quale dovrà rimanere con due
spanne di naso a dir poco; io mi rifugio all'estero in un paese meno
barbaro che non sia questa nostra Italia di Michelangelo e di Raffaello;
io me ne vado in Isvizzera, a Lugano.»
Con poche pennellate di biacca sgorbiò un po' di fondo di tela non
ancora coperto di colore, e si tirò indietro per riconoscere che
quell'albore rinforzava benissimo i toni di tutto quanto aveva messo fin
qui sul quadro, e bisognava proprio scegliere una sala bianca, tutta
marmi di Carrara, o stucchi e oro. Pensò ancora.
«Da poco in qua i pochi Russi viaggianti si fermano in Isvizzera, nel
Canton Ticino, che è come un pezzo di Italia, a Lugano, città di
alberghi... I Tedeschi poi non vengono in Italia senza passare il
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