Beatrice Cenci | Page 4

Francesco Domenico Guerrazzi
muri: proprio per disperazione, di tanto in tanto apriva
il breviario e leggeva; ma col sembiante di chi trangugia medicine
amare: gli occhi gli sdrucciolavano giù per le pagine: avresti detto che
avesse recato seco cotesto libro, come colui che va ad annegarsi si porta
il sasso per legarselo al collo.
Il volto dello sciagurato prete, per ordinario tinto del giallo pallido dei
mozziconi di cera avanzati al servizio dell'altare, quasi per impazienza
si era fatto acceso: non poteva darsi pace che nessuno gli porgesse
ascolto; e sì ch'ei meritava essere avvertito, non fosse altro per
indovinare se avesse più logora la tonacella veste del suo corpo, o il
corpo veste della sua anima: logori entrambi, amici vecchi fra loro, e,
con rammarico grande del loro padrone, testimoni che nulla ha da
durare eterno nel mondo.--
Il curato (dacchè il prete fosse proprio un curato) dopo aver fatto
esperimento come non si verifichi sempre la sentenza della Scrittura
«picchiate, e vi sarà aperto,» si era indirizzato per la terza o quarta
volta a certo staffiere di sala, il quale sembrava finalmente disposto a
dargli retta, quando il gentiluomo dalla trista figura chiamò con voce
arrogante:
--Cammillo!
La natura dei servi è, che quando non hanno motivo peggiore per
incurvarsi, obbediscono a cui comanda più superbo; e Cammillo
staffiere, comecchè tra la famiglia ampissima dei servi non fosse dei
più tristi davvero, tuttavolta, girando quasi per iscatto di molla su i
talloni, mutò la faccia per le spalle davanti al prete; e, fatto arco della
persona verso il gentiluomo, con voce ossequiosissima rispose:
--Eccellenza!
--Avrebbe il nobil Conte per avventura mal dormito stanotte?

--Non lo so--ma non credo. Gli furono portate parecchie lettere sul fare
del giorno, massime di Spagna e del Regno:--potrebbe darsi, ma non lo
so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.
In questo punto un latrato infernale intronò le orecchie degli astanti:
poco dopo si aprono con impeto furiosissimo le imposte della stanza
del Conte, e ne prorompe fuori un mastino di enorme grandezza tra
spaventato e inferocito.
Il villano, giacente accanto la porta, in meno che si dice amen è balzato
su ritto; e, sviluppatosi dal tabarro, dà di mano a un pugnale largo, e
lungo bene due palmi, atteggiandosi a difesa. La giovane madre si
strinse il figlio al seno, cuoprendolo con ambe le braccia. Il padre si
parò dinanzi al figlio e alla sposa schermendoli col proprio corpo. I
gentiluomini si scansarono con fretta decente, come chi non vuole a un
punto incontrare il pericolo, e non mostrar paura. Il curato poi si mise a
fuggire.
Il cane, seguendo suo istinto, si avventa contro il fuggitivo, lo azzanna
per gli svolazzi della tonaca, e gliene strappa un lembo; e gli faceva
peggio, se due staffieri correndo non lo avessero trattenuto a gran pena
afferrandolo pel collare. Il breviario era rotolato per terra. Il povero
prete traeva dolorosi guai; e, stretto dalla medesima smania che
spingeva lo ebreo Sylock a gridare «_la mia figlia! i miei danari!_»,
esclamava:
--La mia tonaca! il mio breviario!--
Il cane infellonito abbaiava più forte che mai.
Sopra la soglia apparve un vecchio. Questo vecchio era Francesco
Cènci.
Francesco Cènci, sangue latino dell'antichissima famiglia Cincia,
annoverava fra i suoi antenati il pontefice Giovanni X, quel sì famoso
drudo della bella Teodora, la quale per virtù di amore lo condusse
vescovo prima a Bologna, poi a Ravenna, e finalmente lo fece papa. E
come nel tempo, così era cotesta famiglia nel delitto vetusta;

imperocchè, se la storia porge il vero, Marozia sorella a Teodora,
intendendo torre a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa
proditoriamente la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il
Laterano, uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni stesso
chiude in carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase morto. Corre
fama eziandio, che lo rinvenissero cadavere nel letto di Teodora; e la
superstizione immaginò lo avesse strangolato il diavolo, in pena dei
suoi delitti. Morte obbrobriosa a vita di vituperio!
Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua
entrata si stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi era
infinito, ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava
il padre, che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre
questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio Cènci
attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi entrambi nel diverso
mestiere. Intorno al conte Francesco, male sapevasi che cosa si avesse a
pensare: forse sopra alcun uomo mai corse così diverso il grido come
sopra di lui. Chi lo predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri,
all'opposto, lo dicevano avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in
conferma così dell'una come dell'altra fama potevansi addurre riscontri.
Aveva sostenuto parecchi processi, ma n'era uscito sempre assoluto ex
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