Beatrice Cenci | Page 5

Francesco Domenico Guerrazzi

capite innocentiæ: molti però non si acquietavano punto a siffatti
giudicati, e andavano sussurrando dintorno, che fino allora non avevano
veduto mai la Ruota Romana condannare uomini ricchi per centomila
scudi di rendita. Ma se la vita sua compariva al pubblico misteriosa,
troppo palesemente ebbe a provarla senza fine spietata la sua misera
famiglia, la quale per pudore, e molto più per paura, non ardiva
profferire parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si
compiacesse immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla
opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e
appena immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo;
avesse a spendersi un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo
volere, era il lampo; il fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di
audacia!) tenere conto esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo
libro di Ricordi si trovarono registrate le seguenti partite:--_Per le
avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per la
impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono rubati_.--Viaggiava

a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo stanco scendeva, e
comperavane un altro: se ricusavano venderglielo ei se lo toglieva,
dando qualche pugnalata per giunta. Paura di banditi nol tratteneva da
passare soletto le foreste di san Germano e della Faiola; e spesso ancora,
senza punto posare, fu visto condursi a cavallo da Roma a Napoli.
Quando appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o incendio, o
assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere. Forte fu
della persona, e destro in ogni maniera di esercizii maneschi, così che
provocava sovente i suoi nemici con soprusi e dileggi: ma di questi,
palesi ne aveva pochi; chè lo temevano assai, e a cimentarsi con lui ci
pensavano due volte. Conduceva in ogni tempo al suo soldo una
masnada di bravi; il cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni
maniera di banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.
Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere carnefice) di
Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i
Conti Cènci, ed altri fra i più potenti dei nobili romani, dopo averli
trattenuti alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti
balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città, disse ai
circostanti: «O la mia vista, siccome suole per vecchiezza, è diventata
fosca, o di qualche strano apparecchio vanno ornati stamattina i merli
dei palazzi delle Signorie vostre eccellentissime: andate a riscontrare, e
in cortesia fatemi assapere quello ch'è.»
Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti signori
riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e tutti, senza
misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.
Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo ottimamente
conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno di tirarsi al largo; e
finchè ei visse stette a Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda.
Il serpe aveva trovato a mordere la lima.
Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli anni, pure
bene di salute disposto; se non che, offeso nella diritta gamba,
zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio, avrebbe acquistato
fama di oratore egregio se glielo avessero conceduto i tempi e la lingua,
che, ad ogni più leggiera alterazione inciampandogli fra i denti,

lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i sassi. Di laide sembianze
non poteva estimarsi per certo; e non pertanto sinistre così, che
giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo spesso
paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati in bianchi;
se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e una tinta più gialla e
biliosa, il suo volto presentava la medesima aria della sua giovanezza.
La fronte, mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non
profonda quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì
sfumata, leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta
estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza che declina. Gli occhi,
mesti per ordinario, colore del piombo simili a quelli del pesce morto,
privi affatto di splendore, contornati da cerchi cenerini, e reticolati di
vene violette e sanguigne--pareano cadaveri dentro casse di piombo. La
bocca sottile perdevasi fra le rughe delle guance. Cotesto volto
sarebbesi adattato ugualmente bene a un santo e ad un bandito: cupo,
inesplicabile come quello della sfinge, o come la fama dello stesso
Conte Cènci.
Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza: più tardi
m'ingegnerò esporre uno studio psicologico intorno a questo prodigioso
personaggio.
Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue stanze,
insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli profferiva i consueti
uffici, aveva risposto:
--Va' via: mi basta Nerone.
Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia.--Così lo nominò il
Cènci, meno in memoria
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