che
sterili applausi; non che domandasse contanti; ma piacevagli per un
sonetto, o un altro componimento, vedersi ricambiato con qualche
gentilezza; e tale che all'uopo egli potesse permutarla in moneta; come
più volte scriveva al pittore Castello. E fu talora, che volendo
intraprendere un viaggio, e stando male a quattrini, nè volendo far
debiti in Savona, per certa alterezza, volgevasi in Genova alle persone
da lui celebrate: siccome al P. Abate D. Angelo Grillo, patrizio
Gianvincenzo Imperiale; e quando i creditori ridomandavano la somma
cortesemente prestata, il Poeta che non sempre aveva alla mano la
moneta, forte si doleva, e ricordava l'amicizia, e i versi scritti in
encomio del creditore. Ma l'Imperiale, uomo vano anzichè gentile, non
volle appagarsi di lodi; e convenne al CHIABRERA pagarlo con una
tavola del Tiziano. Il pittore Bernardo Castello, che non dipingeva
senz'averne l'indirizzo dall'amico Poeta per la composizione, o storia,
doveva sempre ricambiarne i consigli con qualche disegno di pittore
insigne, o con un suo lavoro suggerito dal CHIABRERA. Le quali cose
si volevano accennare, acciocchè si conosca che GABRIELLO aveva
di che vivere in aurea mediocrità; e infatti, senza le pensioni che gli
pagavano il Granduca di Toscana e il Duca di Mantova, egli stava nel
catasto delle taglie per dieci mila scudi; somma rilevante a quel tempo
in un gentiluomo privato; e veggiamo che la moglie teneva almeno due
servigiali; e non mancava un servitore al marito.
Ma di un sommo poeta non si deggiono così ricercare le notizie della
vita domestica, come quelle degli studj e degli onori per essi ottenuti.
GABRIELLO CHIABRERA, uscito dagli anni della prima gioventù, e
dalle istituzioni puerili, cominciò a praticare in Roma con Paolo
Manuzio amico di Massimo suo fratello, e ascoltavalo ragionare: poi
recandosi alla Sapienza, udiva leggere Marcantonio Mureto, ed ebbe
con lui familiarità: avvenne poi che Sperone Speroni fece stanza in
Roma, e con lui domesticamente trattò molti anni; e da questi uomini
chiarissimi raccoglieva ammaestramenti. Que' sommi latinisti, Manuzio
e Mureto, gli fecero nascere desiderio di poetare nell'antica lingua de'
Romani; ma non istette molto ad avvedersi che i primi seggi erano già
tenuti da uomini famosi; e si volse alla lingua italiana; confortatovi
eziandio (come si vuol credere) da Sperone Speroni. Diedesi dunque a
studiare ne' primi fondatori dell'idioma toscano, e specialmente in
Dante, nel Petrarca, e nel Boccaccio: tra' meno antichi pregiò sopra tutti
l'Ariosto. Con presidj sì fatti, e coll'aggirarsi per la Toscana, venne a
tanto di perfezione che sì nella poesia, come nella prosa, egli è scrittore
pieno di urbanità, di grazia non affettata, e così puro che l'Antologia di
Firenze, disse del suo scrivere quelle parole dell'Alighieri:
«........ ma Fiorentino
Mi sembri veramente quand'io t'odo.»
Allo studio della italiana congiunse quello della lingua greca; e tanto
s'invaghì della perfezione de' greci poeti, che volendo lodare alcuna
cosa, come perfetta, era solito dire: _è poesia greca._ Omero metteva
innanzi a tutti; ed essendovi già fino da que' tempi alcuni detrattori
dell'altissimo poeta, egli affermava odorare di sciocchezza chi non
intendeva le bellezze omeriche. Di Pindaro prendeva singolar
maraviglia. Quanto fosse studioso di Anacreonte, chiaramente appare
dall'averlo imitato felicemente. In Virgilio lodava il verseggiare
nobilissimo e il parlar figurato. A Dante dava gran vanto per la forza
del rappresentare e particoleggiar le cose, le quali egli scrisse; ed a
Lodovico Ariosto similmente; cui era solito dare il titolo di _grande_.
Leggeva molto Orazio, e sovente ne cita i detti, o li trasporta in italiano
con felicità incomparabile: mi serva il riportare questo verso,
Il taciuto valor quasi è viltade,
bellissima versione di quella sentenza che tormentò sempre i traduttori
del Venosino: _paulum distat inertiae celata virtus_. In Orazio
commendava la lingua colta, l'eccellenza degli aggiunti, il non avere
nulla di soverchio, e l'adornarsi di sentenze morali. E siccome il nostro
CHIABRERA avea pur dato opera agli studj sacri, compiacevasi molto
del profeta Isaja, ch'è pure sommo poeta; e negli ultimi anni aveva in
costume di portarlo seco insieme con Dante.
Con tanti presidj ed ammaestramenti, e dotato d'ingegno grande, e
bramoso di gloria, non poteva il CHIABRERA non levarsi sopra la
schiera de' poeti, e giungere a tale di altezza, che altri non avesse
speranza di aggiungerlo. Tentò quasi tutti i generi di poesia, e i più
felicemente.
Francesco Maria Zanotti, che soli quattro lirici sommi voleva
riconoscere in Italia, tra questi collocò il CHIABRERA. Scipione
Maffei riconosce due scuole poetiche in Italia, quella del Petrarca e
l'altra del CHIABRERA. Antonmaria Salvini affermava niuno meglio
del nostro poeta aver inteso il carattere sublime di Pindaro e il vezzoso
d'Anacreonte. Ma parecchie difficoltà fecero contrasto alla gloria del
CHIABRERA; cosicchè il Muratori con ogni ragione lagnavasi che non
fosse conosciuto quanto e' meritava. E in primo luogo, lui vivente, si
contaminava la letteratura colle gonfiezze e i bisticci del secento; e
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