il poco guadagno e per la tolta speranza di una cena, fece visino sorridente, e piegò la persona a un--V'obbedisco.
--Ho d'uopo--disse il messere:--della vostra saggezza e del vostro buon volere.
--Se voi comandate così, mi compiaccio assai: la saggezza a pro di ricco e nobilissimo conte, come voi, deve sempre essere accompagnata dal buon volere di saperla così ben usata.
--L'astrologo m'è diventato un fanciullo.... Nella vostra camera voi avete certi rotoli antichissimi di pergamene.
--Signore sì, certe disquisizioni dei latini.
--L'astrologo non sa suggerirmi.... Erano valenti questi latini?
--Oh pensate, messere, sono i maestri del mondo.
--Sta bene. Che cosa insegnarono?
--Messere, di tutto.
--E a petto di quello che dicono questi maestri nessuno sa schermirsi?
--Ai nostri tempi, no certo. Nell'abbadìa io sentii dire da frate Giocondo che noi siamo più rozzi degli ungari, e so che cinque frati altro non facevano tutto l'anno che copiare certi e certi codici sbiaditi di Cicerone che valevano un archivio e mezzo: e tanto mi raccontò l'abbate, che appresi l'arte della lettura per desiderio, poi quella della scrittura, ed ora vi dico che mi lagno d'avere soli due occhi che bastano a leggere poco, e vorrei che ci fosse un inchiostro d'oro fino stemperato per potere con quello scrivere certe sentenze antiche, le quali sono la magnificenza istessa di Salomone.
--L'astrologo non sa suggerirmi.... Ingo, dite, e i greci?
--I greci furono popolo artistico e coltissimo.
--Avete rotoli vecchi di quelli?
--Messere, se vorrei averne! Ci fu Platone che scrisse degli Dei, come se li vedesse, ci fu Aristotele che disse tanto dell'anima, quanto un dottore di santa madre chiesa, ci fu Socrate che morì, bevendo il veleno con tanta filosofia....
--E non sapeva farlo bere agli altri?--interruppe Adalberto, così mostrando la sua intenzione.
--Socrate era filosofo stupendo. Se vorrei averne di quei rotoli! Ho solo un discorso che è un pozzo di sapienza! Se lo vedeste! Un manoscritto che mi costò un anno di lavoro nella cella, ma riuscì così nitido, così corretto, a facciuole di santi e di beati, che sono cose da mettere su un altare, se quel sommo non fosse pagano, e l'anima dannata, com'è!
--Non sapevano farlo bere agli altri!--risolse Adalberto:--Ingo, io vorrei un greco, un latino, o un dimonio che fosse diverso da quel vostro filosofo stupendo.
--Ho capito.
--L'astrologo è diventato un fanciullo. E perchè non vi abbiate a pentire, Ingo, d'avere due soli occhi, vi do di che allegrarli a sazietà: queste le sono monete d'oro: ma l'oro non stemperatelo in inchiostri per onorare di fregi le chiacchere disutili dei morti, tenetelo per, voi che siete vivo. Avete capito?
--Ho capito!
CAPITOLO II.
Pel giorno di Pasqua di Resurrezíone, nella chiesa del castello d'Adalberto, diceva la messa un frate, e ad ascoltarla vi era il signore su un seggio, a destra dell'altare maggiore: a sinistra cinque cavalieri, in piedi, con più di cinque paggi in seconda linea, e di questi chi recava lancia, chi vessillo, chi coppa, e via, a seconda dell'omaggio che doveva rendere il proprio padrone. Messer Adalberto, perchè in quell'ora si gloriasse di tutta la sua dignità, vestiva una maglia lucente, a maniche, cappuccio e falda assai lunga, portava strisce di cuoio rinforzate da piastrelle di acciaio intorno alle gambe a stringergli i panni ruvidissimi e attorcigliati, scarpe acute pure di maglia, e speroni d'oro da combattimento. La spada a croce, col cingolo d'arme, e un cerchio comitale di ferro, gli erano accosto su un tavolaccio di faggio, sul quale anche si vedevano certe collane disusate, gli emblemi della perfetta cavallerìa degli avi, da Brunone suo a Sannuto, l'antichissimo fondatore dalla stirpe dei lupi d'Auriate. I vassalli comparivano quali in quel dì dovevano, cioè spogli di tutte le insegne che accennassero vita guerresca disgiunta dalla obbedienza al signore: avevano tonache succinte, corte, aderenti alle braccia e al busto, calze strette in gamba, di colore oscuro, usatti neri, puntuti, senza calcagni e senza lacciuoli.
Finita la messa, Adalberto si alzò, e fece cenno al maestro Ingo, il quale spiegò una pergamena: Guidello, divisato coi colori del suo signore, entrò, recando bastone e tromba, e su quello legò il bando pubblicato la settimana prima: poi si pose dietro il seggio di Adalberto. E questi, appoggiandosi con fierezza ai bracciuoli, si drizzò in piedi, come per degnazione, levò la destra all'altezza delle teste, quasi per deprimerle, e--Cavalieri,--disse:--quello che lesse il nostro araldo è quanto noi pensammo e pensiamo. La festa fu celebrata nella chiesa a maggior lode di Dio, il quale ci diede il potere.--Queste le parole, ma il pensiero ben diverso.
Il signore sedette, comandò a Guidello, e Guidello gridò i nomi, giusta l'ordine della nobiltà più antica. Venne innanzi Gisalberto, conducendosi allato due paggi, uno che reggeva la lancia, l'altro il vessillo su un'asta ferrata. Poi il cavaliero Ugo....
Questi aveva vesti nere, affatto nere, lo scudo coi propri colori ricamato sul petto, gli sproni d'oro ai piedi: chi l'avesse osservato bene, come certo notarono
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