Nuove | Page 5

Emilio de Marchi

l'unica parola che sapeva dire--Papà....

L'arlecchino mi scivolò fuor delle dita e cadde in terra con un ciach....
fracassandosi la testa di biscuit. Io non me ne accorsi o cioè credetti che
mi scoppiasse il cuore. Quel che si prova in certi momenti non si può
dire in cent'anni. Fu un caldo e un freddo tutto in una volta, un
trasudamento in tutta la persona, una vertigine, per resistere alla quale
dovetti attaccarmi al braccio della Paolina che scossi, scossi, stringendo
forte. Poi strappata la bimba alle mani della ragazza, me la portai alla
bocca, come se morissi di fame, e cominciai a mangiarla.
--Sì, mio povero angiolino, io sono il papà, e un papà che non ti
vorrebbe meno bene del tuo vero papà, se la mamma permettesse. E ti
farei giocare e saltare sui ginocchi e lavorerei per te... se la mamma
volesse....
--Lei me la mangia per panettone....--prese a dire la Paolina,
togliendomi la bimba dalle mani: e nel dire questo vidi che rideva al di
sotto delle lagrime, un effetto di sole attraverso la pioggia, una bellezza
da mettersi in ginocchio ad adorarla.
* * *
Si racconta che Sant'Ambrogio sia stato proclamato arcivescovo di
Milano per bocca di un bimbo poppante, Questa è storia vera e ne
hanno fatto dei quadri. Ebbene a Gerolamo Bacchetta capitò lo stesso.
Ci sposammo presto e si fece una ditta unica. E se sant'Ambrogio fu
soltanto arcivescovo, Gerolamo Bacchetta, ombrellaio all'insegna
dell'Ombrellino rosso, fu nominato papa addirittura.
Letizia è già la mia figliuola maggiore.
* * *

MEDICI E SPADACCINI

MEDICI E SPADACCINI

Il Calchi venne a casa mia prima delle quattro colla carrozza e mi trovò
già quasi vestito e pronto. La mattina era bellissima, fatta più per una
scampagnata che non per un duello. Non abituati a levarci col sole, noi
poveri redattori d'un giornale del mattino, che andiamo a letto quando
canta il gallo, ci sentivamo ancora la testa piena di sonno e di nebbia;
ma un bicchierino d'acquavite svizzera, che all'amico parve una cosa
spiritata più che spiritosa (il Calchi è famoso per questi giochetti di
parole) finì col risvegliarci.
In quattro salti scendemmo le scale e prima delle quattro e mezzo
eravamo alla casa del giovine ed elegante dottor Sirchi.
Era costui un bel ragazzo laureato di fresco, sempre inappuntabile nelle
sue camicie, come di rado sono i signori medici. Mezzo letterato,
mezzo artista, amico dei giornalisti, quasi sempre innamorato d'una
qualche contessa tisica, cercava tutte le occasioni per mettersi in vista.
Quale occasione migliore d'un duello, che avrebbe fatto le spese dei
discorsi di tutta la città e riempita per lo meno una colonna di cronaca?
Egli prese posto nella nostra carrozza e collocò sulle ginocchia la
cassettina nuova de' suoi vergini ferri.
Davanti alla casa di Massimo trovammo l'altra carrozza. Dato un
fischio «come augel per suo richiamo» si aprì una finestra al terzo
piano: Massimo mise fuori la testa, ci fece un segno e cinque minuti
dopo le due carrozze uscivano da Porta Vigentina.
--Come ti senti?--chiesi a Massimo ch'era salito nella mia carrozza.
--Sono grigio--borbottò.
--Che bella mattina! è di buon augurio--dissi per dir qualche cosa.
--Ho dovuto dare a intendere a mia madre che andavo a Chiasso per
l'inaugurazione della ferrovia. Quella benedetta donna è sempre in
sospetto quando esco di buon'ora e quando mi sente tramestare nella
camera. Sono entrato a salutarla e mi ha sgridato, perchè non ho messo
il panciotto bianco sotto la cravatta nera. Povera vecchia!

Massimo parlava tenendo gli occhi fissi sulla siepe, coll'aria astratta di
chi parla in sogno. I manuali che in quell'ora mattutina vanno alla città,
a lavorare, colla giacca di fustagno su una spalla e un pane misto sotto
il braccio, si voltavano a guardar le due carrozze chiuse, che
procedevano di corsa, almanaccando chi sa che romanzetto; e poi
tiravan via al loro mestiere, che in fondo era migliore del nostro.
Qualche ragazzaccio ci gridò; dietro: crèpa i sciori!
--Sono entrato per salutarla, ma ero forse un po' troppo commosso. Non
ho mai potuto correggere questo mio porco carattere...--Seguitò
Massimo colla sua voce naturale, un poco velata e quasi affogata nella
gola ampia e robusta. Quell'omone grande e grosso colla sua barba da
brigante, colla sua corporatura da spaccalegna aveva un'anima più di
buon papà, che non di scapolo avventuriere, di giornalista garibaldino e
di focoso polemista.
Come fosse entrato a far questo maledetto mestiero si spiega coi casi
della vita, che sballottano un pover'uomo come le onde un turacciolo di
bottiglia. Massimo era figlio del popolo. Sua madre, ortolana del
verziere, aveva sempre avuta una banca d'erbaggi in piazza di Santo
Stefano, che è come chi dicesse la city delle patate e dei piselli.
Scoppiata la guerra, Massimo, che cominciava a provar la voce anche
lui sulla bella magiostrina,
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