a un tempo E tiranno de l'uom, da cui
soltanto Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari. Chè or sopra ai
soverchianti astri ei fu visto Spazïar l'insegnato etere, or chiuso Tra'
fulmini precipitar su l'ale Dei rotanti uragani, or sovra al dorso Dei
cavalli del mar correre i flutti E sfrenar l'onde a battagliar coi venti; O
ver come immortal fremito immenso Penetrar l'aria, serpeggiar nel
grembo Degli avari terreni, e al vigilato Solco apparir fra le compiute
ariste. Però quel che Dio fu, quale ancor vive, E quanto ebbe e
mantiene a l'uom soltanto Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino, O
prospero, o maligno, arbitro è solo. Chi a tiranno cotal, che, dal
pensiero Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse E le cose universe, il
fronte oppose Con indomito orgoglio, e una selvaggia Voce di libertà
gittògli incontro, Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta Prepossanza di
Dio tenne equilibre Con perenne agitar? Fu la feconda Lite, che il mar
de l'essere commove Con assiduo flagello, e dai cozzanti Corpi la luce
e l'armonia deriva. Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto Padre di
servitù, per fiero istinto, Rubellossi da prima; essa al feroce
Andropòfago Iddio scosse la reggia Vigilata dai fulmini; e dal fiero
Cozzo con lui tanta favilla emerse, Che, mutata dagli anni in fiamma
viva, Tutto divorerà dei numi il regno. O d'ogni libertà fonte primeva,
Madre d'inclite pugne, io ti saluto! Tu co'l moto la vita, e co'l solenne
Fra le cose de l'alma egregio attrito Luce dèsti e saper negli intelletti E
co'l saper la libertà, sublime Pianta, che sol dov'è coltura alligna. Te da
la terra solitaria i saggi Primamente avvisâr; te, spiratrice Di terrigeni
mostri a Dio rubelli, Raffiguraro e coltivâr le genti, E or fosti Isi
nomata, or Bahavàni, Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco, Or
discordia infinita, e, se paura Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli, O fur
da sacerdoti empî travolte, Nome avesti d'errore e di menzogna Tu, che
ad onor del vero e de la luce I misteri del cielo agiti e sperdi. Ma qual
tu fosti e sei, più che i mortali Lo sanno in prova, e da più tempo, i
Numi. Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli Troni d'Olimpo, il
nèttare libando D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna, Fra le dapi fumanti e
le vezzose Fanciulle che tesseangli inni e carole, Cura de l'uom gli
penetrava il petto. Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti Dal comando di
lei, che Lite ha nome, Quanti mai da la terra erano usciti Terribili Titani,
a cui la forza Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire; E avventando
ciascun li suoi cinquanta Capi feroci e le altrettante braccia Contro ai
regni di Giove, orribilmente Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo. Arse
d'ira il tiranno, e forza a forza Oppose, e vinse. Da le attinte altezze
Precipitâr gl'intrepidi gagliardi Un dopo l'altro fulminati, e monti Ed
isole parean, che in un selvaggio Moto la terra, o il mar vorace
inghiotte. Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo Di cotanta caduta, o
sopra a tutti Sventurato Titano? Eran pur folli D'Ùrano i figli, ove
tenean, che segga Maggior virtù, dove più grande e saldo Torreggi il
corpo, e il vigor cieco e bruto A pugnar contro a tutti e a vincer basti.
Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza Di giganti trïonfa, o adamantina
Spada conquide, e solo a la modesta Continua punta del pensier
soggiace. Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse Furor d'atre procelle,
a poco a poco, Morsa dal flutto che le geme intorno, Scemar vedi e
crollar: son rupe i Numi, E il flutto assiduo del pensier li rode. Così
Giove fu vinto, e in simil guisa Vinto sarà chi gli successe. Or odi Quel
ch'io feci e farò. Da una malnata Bordaglia rea, che da natura in dono
Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede, Ièova ne venne, un implacato
iddio, A cui fulmine è il guardo e tuon la voce. Solitario e funesto egli
incombea Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto Dei tremanti mortali,
e gran sepolcro Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo, Pria de l'ora, il
fatal sasso si aggrevi. Io nel cielo era ancor, bello di tutti Radïamenti.
Era sorriso e luce, Fragranze ed armonie del ciel la vita, E, cullati in un
mar d'ozii e di fiori, Si tenean tutti e si dicean beati. Sol'io, spirito
inquieto, indifferente A quell'aprile, a quel banchetto eterno, Sentía
dentro a l'altera anima un vôto Misterïoso, un mar senza confine, Come
una solitudine infinita D'intorno a me, dentro di me: se avessi
Conosciuto l'amor, forse in cor mio Ravvisato l'avrei sin da quel giorno.
Poco mi parve il ciel,
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