Lolmo e ledera | Page 4

Anton Giulio Barrili
volta, temporibus illis, fuggo le pene dello spirito come il diascolo
l'acqua santa. Egli c'è a questo proposito un adagio, triviale se volete,
ma calzante: «il cane non torna dove fu bastonato.»

La marchesa Bianca sembrava non saper nulla della sua tentatrice
bellezza, o, se ella lo sapeva, le doveva parere la cosa più naturale del
mondo; donde avveniva che non ne facesse pompa. Ma ogni suo gesto,
ogni volger di ciglio, facevano scorgere quella bellezza sotto un aspetto
nuovo e sempre migliore del primo. E cotesto, siccome ho detto,
senz'ombra d'artifizio. Sia che la si facesse guardare di profilo o di
fronte, sia che arrovesciasse il capo e mostrasse una fila di denti
candidissimi e piccini, sia che pensierosa aggrondasse le lunghe ciglia
sugli occhi semichiusi, ella era sempre la più bella, la più desiderata tra
le donne. Arguta e colta com'era, neppure si avvedeva di dire cose
leggiadre, e mostrava di accorgersi sempre di quelle che si dicevano a
lei, o dintorno a lei. Segnatamente per le sue sorelle in Eva, ella era
cosiffattamente buona, da parere, non che magnanima, spensierata.
Figuratevi che la dicea schietto alle sue amiche qual veste o quale
acconciatura di capo ella avesse divisato mettere per la festa da ballo
della Prefettura, o per altra delle pochissime a cui si aprivano le sale de'
suoi pari. E quelle subito ad imitarla; ma, quantunque facessero, la sarta
non conferiva loro quel garbo della persona, quella grazia che spesso è
ascosa in una piega da nulla, come gli amorini nello zendado di Venere.
Tutto insomma era natura in costei. Nata bella in una culla d'oro,
cresciuta in mezzo a tutti gli agi di un lusso intelligente, tra i profumi
della nativa eleganza, io credo che ella succhiasse l'arte col latte. Credo
eziandio che facesse versi, ma sarei pronto del pari a scommettere che
non avesse imparate mai le regole della prosodia. Ella era, giusta la
frase culminante della adorazione mascolina, un angelo sceso in terra,
ma un angelo femmina, s'intende, a cui fossero state recise le ali per
tornarsene in cielo. La qual cosa, quanto sia vera per gli angeli, dicano i
teologi. Per la marchesa Bianca, io reputo che un po' meno di bellezza e
un po' più di cuore, non avrebbero guastato, anzi avrebbero reso più
ragionevole il paragone.
Ho fatto un lungo discorso della marchesa di Roccanera, in primo
luogo perchè le cose rare vogliono una più grande attenzione, e poi
perchè la era l'unica donna che io guardassi molto, a que' tempi. Non
l'amavo, e, come ho già detto, fuggivo le occasioni di accostarmi a lei;
ma, poichè era bellissima, mi pareva che, veduta ad una ragionevole

distanza, colorisse alla mia mente il tipo della donna; e in lei guardavo
un tipo, non altro; consolavo un affetto d'artista, soddisfacevo ad una
curiosità di studioso. Così, allorquando m'ero ristucco colle noie della
vita giornaliera, me ne andavo a teatro, dove sapevo di trovar la
marchesa, al davanzale del suo palchetto, nel suo solito posto, colle
spalle rivolte alla scena; andavo a piantarmi ben lontano da lei, all'altro
fuoco dell'elisse; e laggiù, confuso nella moltitudine, mettevo mano
allo strumento di Galileo e investigavo il mio tipo, facendovi su ogni
sorta di dotte considerazioni. Ero come l'astronomo che guarda una
stella lontana nello spazio, ne misura il volume o la densità, ne arguisce
la temperatura e tutte l'altre proprietà fisiche.
Da cotesto argomentate che cosa io facessi per l'appunto in quella sera
donde piglia cominciamento la mia narrazione. Senza desiderio di lei,
senza invidia del marito, senza fastidio de' cavalieri serventi, che
facevano la dozzina come i segni dello Zodiaco, m'ero posto a
contemplare la bellissima donna. Ella in quel momento, col gomito
fermo, alzava ed abbassava in cadenza la mano, percuotendo
leggermente il velluto del davanzale con un occhialino di madreperla,
raccomandato all'anulare da una sottil catenella d'oro. Guardavo quella
manina sottile che scherzava col suo gingillo meno prezioso di lei, e
quel braccio che usciva, stupendamente tornito e stupendamente bianco,
da un'onda di pizzo nero. Dal pizzo i miei occhi salivano all'omero
ignudo (faticosa salita dove si sarebbe voluto far sosta ad ogni tratto,
come su per gli scaglioni della piramide di Chèope), e dall'omero,
considerata l'impervia dirittezza del collo, spiccavano un salto sul viso.
La marchesa Bianca rideva; rideva pazzescamente, ascoltando certi
complimenti che, col viso curvato a poca distanza dal suo, le andava
sciorinando Eugenio Percy, seme forastiero trapiantato in terra nostra,
uno dei più ricchi, dei più eleganti e dei più colti cavalieri di Genova.
Mentre io stava fantasticando di questa guisa, una mano posata sulla
mia spalla e il suono di una voce nota, mi vennero a rompere il filo
delle considerazioni. Erano la mano e la voce di Guido Laurenti.
--Sempre fermo al tuo posto di combattimento!--mi disse egli
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