Lolmo e ledera | Page 3

Anton Giulio Barrili

tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i
caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è
insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se
non forse la tracotanza dell'autore.
Io, digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia,
ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non
quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m'è rimasto
impresso nella memoria, de' casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre

eziandio l'autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come
inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure
ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili;
laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia
semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a
chi scrisse.
Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo.
E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è
fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni;
sibbene (e vo' dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di
gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che
sanno essere un giorno accadute.
Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l'anno e il mese da
cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che
stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la
prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi
di suo pugno la data.
Era per l'appunto in quell'anno e in quella stagione; sulle scene del
teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per
l'undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c'era più in platea quella
frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari)
il malanno delle prime rappresentazioni.
Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia;
rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si
gira liberamente da un capo all'altro dell'emiciclo, dando un saluto a
diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla
mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della
signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano
assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga
insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d'ogni parte
le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire
ogni seno.
Quella sera, adunque, nel secondo intermezzo dello spettacolo, ero

andato a piantarmi comodamente, e senza paura di gomitate, contro la
parete circolare della platea, e là, fantasticando non so che cosa,
volgevo sbadatamente le lenti del binoccolo su questo e su quello dei
palchetti di seconda fila. Ma siccome non c'è viaggio che non abbia la
sua stazione, anche il mio binoccolo fece sosta, e lunga sosta, al
palchetto della marchesa Bianca di Roccanera, quella meravigliosa
bruna, che parecchi de' miei lettori rammentano di certo, dalla persona
snella, dal portamento di ninfa, celebrata pel ricco volume dei neri
capegli, attorcigliati con leggiadra negligenza là dove il conte Ugolino
amava mettere i denti all'arcivescovo Ruggieri, e ricadenti sul collo in
due larghe ciocche crespate, che le davano un'aria (ma intendiamoci
bene, un'aria!) di malinconia incantevole.
La marchesa Bianca ci aveva un'altra aria eziandio, che non s'ha a
dimenticare in un ritratto come questo. Sebbene ella avesse già varcato
i venticinque, e i suoi occhi, quando a caso si posavano su qualcheduno,
avessero virtù di trapassargli il cuore e lasciar nella ferita l'impressione
gelida dello strumento omicida, la ci avea pure un non so che di
vergineo, anzi d'infantile a dirittura, che traspariva da tutti i suoi modi,
e guai a chi ci si fosse lasciato cogliere; imperocchè quel candore, se
non era artificiale, era pur tuttavia il più pericoloso di tutti gli artifizi,
come quello che era in lei un retaggio della natura, una forma,
un'apparenza, una lusinga di più, della quale essa era come
inconsapevole, ma che, anco inconsciamente, le serviva per tirarle ai
piedi quegl'incauti, che poi dovevano morire assiderati sulla soglia del
santuario, sempre chiuso com'era.
Io ho parlato colla marchesa Bianca due volte appena, in tutto quel
tempo ch'ella stette a Genova, ma tuttedue le volte in carnevale, colla
maschera sul volto. L'incantesimo di quella sua meravigliosa bellezza o
di quel candore vergineo fu tale, che la paura soverchiò la fidanza, e
cansai sempre le occasioni di esserle presentato. Dell'anima mia nel
mondo di là non so che debba accadere; ma se l'inferno c'è, non voglio
cominciare a provarlo nel mondo di qui; però, dopo averne saggiato
una
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