Larte di prender marito | Page 9

Paolo Mantegazza
fulmini o teneri come
tepori del sole di maggio.
Tutti quelli sguardi non penetravano nulla, non bruciavano nulla, non

intenerivano nulla. Si perdevano nello spazio, confondendosi insieme a
tutte quelle energie planetarie, per le quali nè fisici nè chimici, hanno
ancora trovato l'equazione di equilibrio.
Non andavano però perduti per l'occhio vigile e affettuoso della
mamma di Emma, che dopo pochi giorni s'era convinta, che l'ingegnere
era innamorato della sua figliuola. E di ciò era, come il babbo,
felicissima. Non le pareva possibile trovare per la figliola un giovane
più prezioso, che le fosse compagno per tutta la vita.
D'una cosa sola si stupiva assai ed era che Emma non si accorgesse di
quell'adorazione silenziosa del Rinaldini e che non glie ne avesse
parlato.
Un giorno però ella non potè più tacere e a bruciapelo le domandò:
---Che ti pare dell'ingegnere?
--Del Rinaldini?
--Sì, proprio di lui. Nessun altro ingegnere viene in casa nostra.
--Uhm.... mi pare che sia un bravo giovane.... molto studioso, molto
timido.
--No, voglio dire se ti piace, se ti è simpatico.... se lo trovi bello.
--Non ci ho mai pensato, cara mamma.... Lo trovo un bel giovane, sì;
piacente come tanti altri....
Essa aveva detto tutto questo senza arrossire, con un'aria di tanta
indifferenza da lasciare addolorata la mamma, che avrebbe desiderato
in vece una tutt'altra risposta, magari una confessione di cose quasi
gravi... tanto da aver bisogno dell'assoluzione materna.
Rimase parecchi minuti senza parlare. Era piena di stupore e
amareggiata da un grande disinganno....
Dopo tutto quel silenzio, per quel giorno la conversazione terminò con

un gran sospirone della mamma e con un:
--Quanto sarà felice la donna che diverrà la moglie dell'ingegnere
Rinaldini!
Nè il sospirone nè le parole materne commossero il cuore di Emma.
Essa pensava che aveva in quel momento nel nido di rose una lettera di
Enrico e che quella sera passando nel nido bianco, essa avrebbe goduto
un'ora di ineffabile voluttà, leggendola a centellini, divorandola d'un
fiato....
* * *
Il marchese di Acquafredda era l'altro innamorato di Emma.
Un uomo su cui nessuna lingua, fosse la più maledica di questo mondo,
avrebbe potuto sfogare la sua malignità. Non era libertino, non era
bevitore, non era giuocatore.
Ma nello stesso tempo nessuno avrebbe saputo dirne bene. Era l'uomo
più incoloro, più inodoro, più insaporo, come diceva il mio Professore
di storia naturale, parlando del diamante. Era buono, perchè non aveva
mai rubato nè assassinato, perchè faceva delle opere di carità....
Del resto un vero zero umano. Erede di una gran fortuna, non l'aveva
nè accresciuta nè diminuita d'una lira. Badava alle sue terre, alle sue
case; leggeva i libri alla moda, andava nell'estate ai bagni o alla
montagna, frequentava i teatri e le conversazioni; viveva.
Dei suoi amori giovanili nessuno sapeva nulla. Non era galante, ma
neppur scortese colle signore. Aveva da molti anni in casa una bella
cameriera, che faceva anche un po' da maggiordomo e che forse aveva
risolto per lui il gran problema dell'amore, che tormenta tante migliala
di uomini, che semina per le strade della vita tanti feriti e tanti morti.
Insomma il marchese di Acquafredda era, per dirla col linguaggio di
moda, un uomo perbene.

Giunto però ai sessant'anni, molto ben conservato, con tutti i suoi
capelli che non tingeva, con tutti i suoi denti, che eran proprio suoi;
aveva pensato che, non avendo nè nipoti, nè cugini, nè altri parenti
lontani che portassero il suo nome, avrebbe dovuto prender moglie e
avere un erede, che non lasciasse morire il nome e il blasone dei
marchesi di Acquafredda.
Era vecchiotto, ma era sano e arzillo, e scegliendosi una sposa povera o
appena agiata, avrebbe potuto coi suoi milioni gettati sulla bilancia del
matrimonio far equilibrio alla giovinezza e alla bellezza di una
fanciulla, che gli fosse piaciuta.
Ed egli si era innamorato di Emma. Dico innamorato, perchè egli stesso
adoperava questa parola, parlando a sè stesso nei soliloqui della notte;
quando nel silenzio della solitudine correggeva le bozze della vita
quotidiana.
Non avendo pensato a prender moglie prima d'allora, non aveva badato
mai alle signorine, e quella era la prima a cui dirigeva gli occhi amorosi
con intenzioni oneste sì, ma alla sua età alquanto temerarie.
Quegli occhi erano sempre coperti da due grandi occhiali d'oro e
attraverso a quelli passavano sguardi di diversa natura; ora teneri, ora
appassionati; qualche volta anche concupiscenti.
Fossero però quegli occhialoni d'oro o i capelli bianchi, che erano tanto
vicini ad essi, gli sguardi del marchese nè ferivano nè incendiavano, e
neppure vellicavano la pelle di Emma.
Agli sguardi tenevano compagnia dei fiori, dei dolci, dei libri, omaggio
dell'adoratore all'adorata. Questa accettava tutte quelle cortesie e
galanterie come da un babbo, e diceva spesso:
--Che buon uomo è quel marchese di Acquafredda!
I due amori dell'Ingegnere e del Marchese camminavano, con
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