La trovatella di Milano | Page 4

Carolina Invernizio
potesse aver fame. Corse ad una madia, dove trovò ancora un pane assai duro, ne inzuppò alcune fette in un bicchiere di vino e gliele portò.
La bambina si mise a mangiare avidamente. Annetta l'imitò. Il sole brillava nella stanza riempiendola di calore, di allegrezza. Un senso di benessere infinito invadeva il cuore della popolana. Ebbe per un istante il pensiero di nascondere gelosamente quella piccina, conservarla per sè sola. Come avrebbe rallegrata la sua solitudine, riempito il suo cuore! Quanti baci, carezze, cure infinite, avrebbe avute per lei!
Ma quasi tosto provò un brivido di rimorso; quella creaturina doveva avere una madre, che forse in quell'istante la piangeva, la chiamava con grida disperate.
La popolana non poteva mentire al suo cuore: non pensò più alla propria felicità, ma grande d'abnegazione, consolandosi all'idea della gioja che avrebbe procurata a quella madre, si mise tosto a farne ricerca. Ma per quanto s'informasse, mettesse in moto vicini ed amici, non potè trovare alcuna traccia dei parenti di quella fanciullina, nè giunse mai a sapere da chi fosse stata posta sulla soglia del suo uscio e da chi provenisse quel sangue, dal quale aveva aspersi i candidi abitini.
La bambina non era in grado di dare spiegazioni: l'unica parola che uscisse chiara dai suoi rosei labbruzzi era quella di ?mamma?
Annetta non ebbe allora più scrupoli di tenerla con sè e in memoria del suo Mario, l'adorato marito, la chiamò Maria, Gli anni passarono senza portare maggior luce sul mistero della trovatella e la popolana finì col non pensarci più e considerarla come una sua vera figlia.
Annetta aveva da parte un buon gruzzolo, perchè il mestiere d'armaiuolo esercitato dal marito gli aveva dati molti guadagni e permesso delle economie.
La popolana spese una parte di quel denaro per far istruire la fanciulla e quando Maria compì il quattordicesimo anno, secondo i calcoli fatti da Annetta, la mise presso una sua amica, una buona vedova, che aveva un negozio da guantaja, assai rinomato, sul Corso di Porta Vittoria, onde l'iniziasse al suo mestiere.
E l'anno dopo, essendo la vedova improvvisamente morta, Annetta rilevò dagli eredi il negozio, pagando tutto a pronti contanti e andando a stabilitisi definitivamente con Maria.
La giovinetta si faceva ogni giorno più bella e bisognava vedere con quanta grazia e sveltezza sapeva servire gli avventori e come teneva in ordine i libri di negozio.
La popolana, un po' indebolita di forze, per una malattia alle gambe, sedeva abitualmente dietro al banco, contemplando come in estasi quella bella creatura, che aveva il potere di rianimarla, farla sorridere, sviare dalla sua mente un cumulo di tristi memorie.
Annetta aveva nascosto a Maria in qual modo era divenuta sua figlia, perchè l'avvenuto era svanito come un sogno dalla mente della fanciulla. Questa credeva la popolana sua madre ed i vincoli d'affetto che univano quelle due buone creature, si facevano ogni giorno più saldi.
A vent'anni, Maria si mostrava in tutto il pieno sviluppo della sua bellezza affascinante. Aveva avute parecchie richieste di matrimonio, che sempre rifiutò, dicendo di trovarsi troppo felice al fianco di sua madre per desiderare altra sorte. Non aveva ancora amato. Eppure nelle sue vene scorreva un sangue caldo, impetuoso, aveva la fantasia vivacissima e l'avventura di quella notte colla maschera misteriosa, la gettò bruscamente in un mondo d'idee nuove per lei e perciò appunto più pericolose.
Invano la bella guantaja cercò dormire: nell'ombra della stanza, vedeva sempre l'immagine dello sconosciuto, sentiva ancora sulle sue labbra il tocco bruciante delle labbra di lui.
L'alba la sorprese cogli occhioni spalancati, il viso pallido, abbattuto, le labbra frementi, che mormoravano quasi inconscie:
--Chi sarà mai? Lo rivedrò io ancora?

CAPITOLO TERZO.
Il segreto di un milionario.
Erano le cinque di sera. In un salottino appartato, caldo, elegantissimo di uno dei più sontuosi palazzi di Milano, sdraiato su di una poltrona, stava un uomo di una sessantina d'anni, dal sembiante triste e corrucciato.
Indossava una veste da camera di grosso drappo scarlatto, guernita di passamani d'oro: la testa portava nuda, perchè i capelli erano ancora foltissimi, tagliati a spazzola, grigiastri sulle tempia, le cui vene prominenti si gonfiavano alla minima emozione. Il viso di una bianchezza cerea spiccava ancora più sotto la lunghissima barba di un nero d'ebano; i suoi occhi bigi avevano uno sguardo duro, imperioso; il sorriso ironico delle sfingi increspava le sue labbra sottili.
Quell'uomo era il conte Ercole Patta, da pochi anni dimorante a Milano, sebbene dicesse di esservi nato e parlasse difatti il più puro dialetto lombardo.
Un profondo mistero avvolgeva la sua vita passata: era noto solo, che veniva da Vienna, dove eragli morta la moglie, lasciandogli una figlia, Adriana, che all'epoca del nostro racconto, compiva sedici anni ed era l'unica erede di colossali ricchezze; un tipo perfetto dell'avvenenza tedesca ed alle cui fisiche doti stavano al pari quelle morali.
La casa del conte Patta era il soggiorno della più schietta ospitalità; in essa vi convenivano i più
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