intensa ed assidua il mio cuore s'era quasi essiccato. La mia parola era diventata arida ed aspra: ahimè! perfino con mia madre!
Povera e santa mamma!
Che bella e dolorosa vita era stata la sua!--Nel '66, a soli ventidue anni, aveva perduto il babbo, a Mentana, che adorava. Non le eravam rimasti che noi due, e non aveva vissuto che per noi. Per poterci mantenere agli stud? aveva fatto mille sacrifici. S'era quasi privata di tutto. Aveva sùbito smessa la vettura e licenziata la servitù. Aveva lasciato l'antico palazzo di Genova, strappandosi d'un colpo a' rumori, alle distrazioni ed a' piaceri cittadineschi; e s'era venuta a rifugiar in quell'angolo abbandonato e selvaggio, a respirarvi, come entro la cerchia d'un chiostro, la solitudine ed il silenzio: posando sulle nostre teste infantili il delicato giglio della sua mano protettrice e amorosa.
Vederla improvvisamente mancare, era stato uno schianto!
Io avevo pianto a lungo, maledicendo l'iniqua crudeltà del destino che abbatteva così brutalmente un'esistenza innocente come un fiore. Avevo guardato la vita con occhio torvo e corrucciato: avevo ripensato alle mie battaglie, alle mie seti, alle mie fedi come a cose vane, sterili, inutili. Ed avevo anelato il riposo, la pace, l'infinito sonno, il Nulla!
Ma la vita m'aveva subito riafferrato. L'antica passione m'aveva di nuovo investito. L'Arte m'aveva di nuovo tese le braccia, seducente di rorida intatta bellezza. Ed io m'era salvato in grembo al mio mondo chiuso e profondo.
Della cara Estinta non tutto avevo ereditato. Non quel vigile ardente spirito di amore, di annegazione e di sacrificio che abbracciava in un vasto amplesso tutte le forme dell'Essere e caratterizzava, santificandolo, ogni atto della sua vita: ma sì l'inquieto affannoso anelito verso l'Alto, e la sacra, tenace devozione a un ideale di purezza e di nobiltà.
Cos'era dunque il brivido che m'arrestava dubitante sulla soglia dell'infame asilo quando nel cuore della notte come un ladro io lo cercava, cacciato dalla schifosa febbre de' sensi? Cos'era l'orrore che mi pervadeva alla vista della livida creatura che senz'amore, senza palpiti, senza desiderio mi offriva la sua bocca stanca e le sue carni disfatte? Cos'era quel senso di nausea che mi penetrava fino alle midolle nel contatto e mi faceva giurare a me stesso, nella rivolta dell'umiliazione, ch'io non sarei per cadere più mai?
Io aveva, così, affrontato e sostenuto delle fiere pugne:--ma le poche volte che avevo trionfato, la vittoria era stata sanguinosa!
Da una di tali pugne vittoriose ero appena uscito quando mi toccò il fatale incontro!
II.
Il viglietto diceva: ?Ho paura. Temo che mi vogliate far servire a un capriccio, per poi gettarmi via come un limone spremuto. Sarebbe una viltà. Pensateci. Ho sofferto già troppo. Sono una sventurata. Non cercate di accrescere la mia infelicità. Lasciatemi. Sarà meglio anche per voi.?
Questo fu l'ultimo soffio veemente per entro le tortuose fiamme dell'incendio.--Il pensiero che il possesso di lei, così intensamente agognato, non dipendeva più che da una mia sola parola, mi dominò tutto d'un colpo, e mi piombò in un tremendo delirio.
Risposi immediatamente ch'era dell'amore sincero e leale e fedele ch'io le offriva: che avevo bisogno di lei come dell'aria che respiravo, che mi sentivo legato a lei come alla vita istessa, che mi sarei squarciato il petto prima di abbandonarla.
L'indomani ella replicava: ?Se tentaste d'ingannarmi, Dio vi punirebbe. Confido nelle vostre parole. Venite. Stasera, verso le dieci, mi troverete qualche passo innanzi alla svolta, seduta sul parapetto, dalla parte del mare.?
Non era un'allucinazione. Eran parole sue, scritte di suo pugno, queste su cui stavano adesso inchiodati i miei occhi. Ed ella mi apparterrebbe veramente, immancabilmente. E nulla me l'avrebbe potuta strappare: nessuna avversa forza al mondo. Era necessario, fatale, indistruttibile, tutto ciò!
Oh la vorticosa ebbrezza che sgorgava da questo pensiero!
Ma sopra i gorgoglii e le spume dell'ebbrezza, il lampo d'una paura tragica.--E se io non potessi reggere? Se nell'estremo supremo istante ogni energia mi abbandonasse?--Che cosa dunque mio Dio sarebbe avvenuto di me? Che cosa, più nera della morte, mi si apparecchiava, ch'io non osava guardare in faccia?
Più volte già, levandomi di sul letto ove m'ero lasciato cadere esausto, ero venuto alla finestra a misurar l'altezza del sole. E m'ero dimandato s'ei non impiegherebbe tutta l'eternità a declinar fino alle spalle de' monti. E se tanta luce diffusa sarebbe davvero sparita; e se i monti, il mare, la vallicella, lo stradone, e perfino il giardino, perfino il terrazzo, tutto si sarebbe ancora immerso nel buio.
E m'ero tolto di là disperato.
Avrei voluto stendermi su quel letto come in una bara, per non rialzarmi più che a quell'ora.--E invece mi toccò accogliere con un sorriso Giovanni, e sedere a tavola con lui, e sostenere impassibile la molestia de' suoi sguardi scrutatori; e alle sue amorevoli premurose preoccupazioni perchè non assaggiavo nulla e non parlavo, opporre un altro sorriso e uno scatto di simulata allegria.
Ma l'ora si appressava, oramai.
Il fuoco del sole si
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