staccarsene, volontariamente; e per sempre!
Da quale cupo vertiginoso abisso aveva egli attinto la disperata forza dell'abbandono e della rinunzia?
Ogni parola, una goccia di sangue.
Levavo gli occhi alla finestra dello studio, chiusa; e inorridivo.
Pensavo a quel racconto, all'urna che custodiva forse il sanguinoso segreto: e fremevo di febbre e di spavento.
Due giorni, due lunghi giorni, sostenni l'intima inaudita battaglia.
Il terzo giorno feci da Giuseppe aprire quell'uscio e schiudere un po' la finestra perchè almeno un raggio di sole consolasse la penombra.
Feci mettere sulla scrivania un mazzo di rose.
E salii, come salissi a una tomba.
LA ROVINA
I.
Un mattino di giugno, per la stradicciuola solitaria lungo il mare, ella mi ora passata dinanzi rapida, nera, con un'audace andatura; avventandomi in faccia il fruscio delle sue sottane di seta e un violento profumo: urtando e sconvolgendo fino alle ultime fibre tutto il mio essere.
Io m'era, con un brivido, rivolto a dietro, ad assicurarmi che anche quel tratto di strada alle mie spalle era deserto, che tutto intorno era deserto e immoto, sotto la gran luce silenziosa.
Poi, in preda a una febbre che s'alimentava di procaci immagini di lussuria sorte improvvise nella mia mente, l'avevo seguitata: gli occhi annebbiati, le gambe che mi tremavan come giunchi, il cuore che mi martellava.
La strada, svoltando bruscamente a un punto, si rinchiudeva nell'angusto arco di una gola in mezzo a cui scorreva, nascosto, un fossato, e s'adagiava una piccola casa bianca.--Quando io ebbi, dopo la sconosciuta, svoltato; ed ebbi dinanzi quel segreto seno, e la casetta bianca che brillava, unica, al sole,--qualche cosa di decisivo scoppiò in me. I battiti del mio cuore si accelerarono. Ed io accelerai il passo dietro lei che fuggiva; e raggiuntala mentre metteva il piede sullo scalino del cancello per incurvarsi ad aprire, l'avvolsi da capo a piedi in un lungo cupido sguardo; e trasalii, sfiorandola.
In un sorriso che balenò come un lampo ella spalancò su me due grandi occhi lucenti di tenebrosa maraviglia. Aperse, richiuse in fretta il cancello facendolo sbatter forte; attraversò, leggera come un uccello, il breve spazio ghiaioso (udii la ghiaia stridere sotto i suoi piedi), e scomparve.
Non più di venti passi io potei procedere portando entro me prepotente il tumulto suscitato da quella fugace visione passata lasciando sul fondo oscuro della mia anima un solco di fiamma.
Quando mi voltai, e la rividi, affacciata alla finestra, che mi fissava, sentii da me fuggire quasi l'essenza della vita. Come cera al fuoco sotto quello sguardo mi sentivo struggere, e mi lasciavo struggere.
Ma l'immobilità mi costava sangue. Con le gambe che mi si piegavano rifeci quel pezzo di strada; e ripassai sotto la finestra, e bevvi ancora, con gli occhi levati, avido, insaziato, inebriato. Gittai ancora, allontanandomi, alcune ultime occhiate, ultimi saluti a cui avrei voluto imprimere un particolar significato di promessa, di pegno, e di suggello.
E scappai con in cuore il tesoro d'una certezza soave, calda, irruente.
Nell'aperto riso, nel tripudio immenso di tutte le cose, come esultava e traboccava, cantando, il mio essere!
Certo il mare, il mare turchino che alla spiaggia aveva il fruscio della seta, non aveva tremolato mai così vago, nè il sereno aveva brillato mai così vivido, nè l'aria aveva mai, così limpida, rivelati in tutta la loro smagliante freschezza i colori e le forme delle cose.
Per tutto la vita, la gioia della vita si appalesava, zampillando diffusa, intensa, vittoriosa.
E trionfava, baldanzosa, maravigliosa, sovrana.
Che voluttà, che inaudita voluttà, tuffarsi in quell'onda vivificante di gioia! Che ebbrezza, che divina ebbrezza, annegarvisi!
Davanti a mio fratello durai fatica a comprimere la fontana d'allegrezza che spicciava su dal mio intimo.
--Qualche novità!--gridò lui raggiante, alludendo ai miei lavori letterar?, poi che quando componevo solevo aver sul volto quella stess'aria di letizia esaltata, insolente, provocatrice.
Io mi sciolsi dalla stretta della sua mano con un ghigno ambiguo che tutto confermava e tutto negava.
Ma non fiatai.--Udivo le parole di lui, che s'era messo a raccontar d'un suo amico stato ferito in duello il mattino, come un ronzio confuso che mi frastornava maledettamente, e m'opprimeva e m'indispettiva.--Quando potei, in un momento di tregua, ripiegarmi a cacciar, quasi di furto, uno sguardo in fondo alla mia coscienza, non vi trovai più il tesoro di quella certezza soave, calda, irruente: appena le vestigia in un pugnello di cenere fredda e in un'ombra di fumo, grigia. Preso da uno smarrimento mortale, e incapace di rimaner ancora immobile davanti a lui che seguitava, calmo e roseo, il racconto, mi levai e uscii sul terrazzo, a passeggiare, sotto il sole, solo.
Ma egli mi raggiunse, e mi si accompagnò, e rappiccò il discorso, centuplicando l'oppressura.
--Un mal di capo assassino!--diss'io alfine per liberarmi. E gli tesi la mano, e riparai nella mia camera, e mi buttai sul letto con la testa fra le mani che mi scoppiava, a rievocare, a considerare, ad architettare.
Mezz'ora dopo, il piano era stabilito.
Addio a Giovanni con un cenno, e
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