La rovina | Page 3

Angiolo Silvio Novaro

Ma rivederlo due mesi appresso era stata una cosa immensamente triste,
per me. Dei fili d'argento erano spuntati in mezzo al nero velluto della
sua capigliatura; un pallor terreo aveva trasfigurato il suo volto, e un
fosco velo era calato su quegli occhi ove non ardevan più gli antichi
lampi.
Io m'ero ancora sforzato di comprimere e soffocare il traboccante
affanno; col cuore attanagliato avevo ancora sorriso: avevo sostenuto
impassibile la tortura di que' lunghi silenzi carichi di cose oscure,
malaugurose, schiaccianti.--Ma un mattino ch'egli era uscito dicendo a
Giuseppe che tornerebbe solo per mezzodì, m'ero risoluto ad un passo
estremo. Ero penetrato nel suo studio, e m'ero messo a rovistare, a
cercar febbrilmente sulla scrivania, fra le carte e fra i libri che la
ingombravano. Avevo aperta la cartella ov'egli custodiva la
corrispondenza; e avevo letto, con la faccia in fiamme, tutte le lettere,
tutti i viglietti.--E poichè non avevo trovato nulla, nemmeno l'ombra
d'un vestigio, nemmeno l'ombra d'un indizio, m'ero lasciato cadere sul
seggiolone, affranto. Avevo atteso lui per dirgli, supplichevole: «Vedi a
che mi costringi?»--Egli aveva negato, aveva protestato che nulla mi
nascondeva, pallido come un cencio. «Sul nome della povera mamma»
io aveva incalzato, «me lo giureresti?» Allora egli s'era smarrito; aveva
balbettato, a capo chino: «Son scivolato nel fango. Mi sono avvoltolato
nel fango. E non mi levo più!»
Povero Pietro! La sua mano brancicava convulsa sulla scrivania quelle
carte, quasi fossero fango; e non se ne poteva staccare.--Ed io avevo
preso quella mano, e l'avevo serrata forte nelle mie. «Perdonami!»
avevo singhiozzato.--Ed ero fuggito.
Dieci giorni appena eran passati da quella scena: e mi parevan
cent'anni.--Avevo sempre aspettato lo scoppio definitivo con quel

nascosto violento affanno con cui si aspetta, sotto un cielo saturo di
elettricità, l'esplosione del temporale.
«Che sia questa l'ora?» mi domandavo adesso, tutto sbigottito.
E non osavo rispondermi.
--Abbi pazienza!--aveva detto lui.--Una notte è forse l'eternità?
Ma io non potevo più reggere a quell'ansia occulta. Impazientito
insorsi:
--Che gusto sfruttare la curiosità fino a questo punto!
Egli ebbe un sorriso tenue, appena percettibile, che aumentò il mio
affanno.
--È una crudeltà!--rincalzai.
E poi ch'egli seguitava a tacer sorridendo, mi detti a implorare, come un
mendico:
--Il titolo, almeno!
Allora vidi l'impronta di sofferenza ch'ei portava sul volto,
acquistare--quasi alla luce d'un lampo--una evidenza lacerante.--Nel
gran pallore egli proferì:
--La Rovina.
--Lo sapevo!--scattai, involontariamente, meravigliandomi tosto della
mia esclamazione, poichè in verità io nulla sapevo.
Si udiva nel silenzio lo stridore delle ruote d'un carro per lo stradone, e
lo schiocco d'una frusta, fastidioso e insopportabile anch'esso.
D'un tratto una raffica di vento irruppe, impetuosa. Le rame del
mandorlo, che incorniciavan la finestra, sussultarono. Le tende si
gonfiarono. L'uscio, dietro a noi, ch'era rimasto aperto, sbattè forte.

Subito io mi levai. Chiusi l'uscio, chiusi la finestra; e mi soffermai un
istante presso i vetri a guardar gli olivi travagliati dal vento e ad
ascoltar la voce collerosa del mare che s'era repentinamente destato nel
buio laggiù.
Come mi voltai a riprendere il mio posto, rividi lui immobile, con gli
occhi bassi e una mano distesa sulla mensa accanto a un mucchietto di
briciole.
La fiamma del gas, improvvisamente scemata, rendeva una luce assai
povera, sotto la quale il quadro diventava tetro.
Preso da una grande inquietudine, io ruppi:
--Si spegne il gas, non te ne accorgi?
Egli levò la fronte, lento, a guardare, senza far motto.
(Che strazio riconoscere che non se n'era accorto!)
Fuori il vento fischiava, ululava. Il mandorlo si dibatteva forte, nel
tormento: si curvava a' vetri, accennava, picchiava, supplice.
E la luce moriva.
E Pietro non si moveva, non si commoveva; teneva ancora gli occhi
bassi e la mano scarna allungata in mezzo alla mensa.
Incapace di reggere quello strazio, mi slanciai all'uscio, l'apersi e gridai:
--Giuseppe, una candela!
Ma era tardi.
Un sibilo acuto, lamentoso, prolungato come il rantolo di un
morente;--e la tenebra, la paventata tenebra ci avvolse.
Senza respiro, col cuore che mi martellava, io stetti,--aspettando che la
riga gialla sul pavimento appiè dell'uscio annunziasse la luce.

Quando Giuseppe entrò con un mozzicone di candela e lo posò sulla
tavola, apparvero sulle pareti le nostre ombre, mostruose.
--Ancora una candela!--ordinai, agitato da quella vista.
E fu portata un'altra candela; e la stanza si riempì di luce.
Allora Pietro mi guardò rischiarato, quasi rasserenato anch'esso. Poi,
subitamente accendendosi, mi fece:
--Vuoi un soggetto di quadro? Un soggetto semplice e grandioso
insieme?--Immagina. Una nobile figura d'uomo su cui or ora s'è posata
l'ala della morte. Giace supino sul suo bianco letto: le braccia lungo i
fianchi, e le mani distese in un dolce atto di riposo e di calma. Il viso,
che la morte non ha deformato nè contratto nè oscurato, è ancora fresco,
ancora roseo. Vi è sopra diffuso come un pacato splendore, lo
splendore d'una luce interiore
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