buono animo, e a sopportare pazientemente la
presente disavventura. Per la qual cosa Demostene si mise a piangere:
«E come potrò» egli disse «allontanarmi pazientemente da una città
dove i miei nemici sono tali, quali in un'altra si troverebbero appena gli
amici?» Onde io, che sento la fortuna apparecchiarsi a darmi colpo
uguale, nel presagio mi attristo, e vado meco stesso ripetendo le parole
di Demostene. Una gente crudele ha preso a versare vituperio su la mia
terra, e a torto. Dio la perdoni! Per ora a me non si addice pronunziare
che una sola sentenza, ed è questa, che se vivo non potrò, morto almeno
mi fie grato trovarvi la pace che desidero. Ordinariamente cessano gli
odii sopra la sacra soglia della morte, e spesso convertonsi in fervidi
amori ed in cocenti rimpianti: che anche di me abbia a succedere questo
io spero, ed in tale speranza mi acquieto.
Lo Assedio di Firenze dedicai a persona anonima, e così rimanga:
questo è un segreto fra un sepolcro e me, nè a me giova levare il sigillo
della morte.
La Isabella Orsini dedicai a Gino Capponi.
La Battaglia di Benevento incontrò fortuna oltre il merito: di questa
può dirsi, che fu quasi il Beniamino della critica, e fino ad oggi essa
ebbe l'onore di ben quattordici edizioni: però in siffatta specie di trionfo
letterario, nei tempi novissimi si levarono parole acerbe, come anche in
Roma accadeva in ogni trionfo. Non avendo mai speso inchiostro a
difendere il pregio degli scritti miei, non mi prende vaghezza
d'incominciare a farlo adesso: dello ingegno giudichi ognuno come gli
piace, dell'onor mio come deve. Tuttavolta se m'interdico dir bene dei
miei scritti, prego licenza per dirne alcun poco di male. Rileggendo
adesso la Battaglia di Benevento, parmi libro ardentissimo e non di
bella fiamma: vi traspira dentro certo sgomento per nulla naturale alla
età in cui lo dettai, che fu il mio ventunesimo anno, e un alito di dubbio,
che appena si perdona agli uomini i quali sviati dalle decezioni si
sentono sazii di vita: fra tutti i tristi peccati, pessimo. Di ciò ne incolpo
tre cose principalmente: i molti guai, che me fino dai primi anni
inasprirono, e la pazienza corta a sopportarli; la condizione dei tempi,
che parve agli inesperti irrimediabile; e il culto che professavo e
professo ancora a Giorgio Byron. Ma se questo basta alla scusa, non
giova alla lode, conciossiachè l'uomo deva tenere in sè la sua tristezza,
e non ispanderla a sgomentare l'anima altrui; abbia virtù di adoperare
egli vivo la carità della quale io rinvenni cortese un morto. Nel
Cimiterio inglese dentro le mura di Livorno, occorre una lapide dove si
legge incisa la iscrizione che parla così. «Morii di tristezza¹ sul fiore
degli anni: passeggiero, leggi il mio nome, e affrettati ad allontanarti,
per sospetto che il vento ti soffii addosso parte della mia polvere, e ti
attacchi il male crudele che mi condusse a morte.»
¹ Umor nero.
Rispetto alle condizioni dei tempi, la esperienza dimostra unicamente
vero il consiglio che dava Focione al suo giovane amico: «Non è lecito,
o Nicocle, disperare giammai della salute della Patria.» Ma la
esperienza, anche per coloro a cui frutta, è pianta tarda. Rispetto al
Byron poi, giova rammentare che nè sconforti, nè dubbii, lo trattennero
di dare vita e sostanze per la causa di Cristo e della Libertà.
Certo, lo scopo della Battaglia di Benevento fu quello, che altrove
annunciai, compreso nel detto dello Alfieri:
«...... oh! ben provvide il cielo, Che uom per delitti mai lieto non sia.»
Tuttavolta di leggieri confesso, che il modo col quale apparisce dettato
il Libro, toglie non poco alla efficacia del fine proposto.
Questa edizione comparisce notabilmente emendata, e nello stile
corretta, non però mutata: avvegnachè per volgere degli anni o in
meglio o in peggio lo stile muti, e i rattoppi stridano con la stoffa, come
i ritocchi a secco sopra gli affreschi: nonostante questo, per varianti,
emende e correzioni, la edizione Le Monnier è l'unica che io ritenga
normale della Battaglia di Benevento.
Vivi felice.
Dal Carcere delle Murate, questo dì 4 giugno 1852.
F.-D. GUERRAZZI.
LA BATTAGLIA DI BENEVENTO.
CAPITOLO PRIMO.
FURORE.
Gli occhi infiammati, e pregni Di lagrimevol riso; Roca sonar la voce, e
le parole Con subiti sospiri; Stare inquïeto, andare Frettoloso, e voltarsi
Spesso, quasi altri il chiami. Son certissimo segno Di un antico furore.
CANACE, tragedia antica
È mai vissuta creatura umana, che sollevando le pupille al cielo d'Italia
abbia negato esser questo il più puro sereno che mai rallegrasse il
sorriso di Dio?--È mai vissuta creatura umana, che sollevando le
pupille al cielo d'Italia allorchè il figlio primogenito della Natura lo
veste della pompa dei suoi raggi non abbia sentito suscitarsi la mente
pei grandi che non sono più, di cui il nome
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