Il mistero del poeta | Page 6

Antonio Fogazzaro
Gl'italiani, non più di quattro o
cinque, avevano, fra tanto grave silenzio di esotici, un'aria assai
compunta, e mi guardavano con la evidente ingordigia di arruolarmi per
le passeggiate, le chiacchiere e il biliardo. Ciò mi metteva orrore, per
cui fui gelido con un piccolo vecchio signore, il quale, dopo pranzo,
fatto un preambolo sui miei celebri poemi (!), mi disse che lui o i suoi
compagni si trovavano molto a disagio fra gl'inglesi ed erano felici
della mia venuta. Soggiunse di chiamarsi il cavalier Tale; gli altri si
chiamavano il conte Tale e il cavalier Tal altro; il quarto non aveva
titoli, ma era tuttavia una persona molto civile. Finalmente questo
povero signore mi promise di parlare al cuoco per ottenere un po' meno
plum-pudding, un po' più di rispetto alla minoranza nazionale; e mi
lasciò in pace, nè più ci siamo parlato.
Uscii a prendere il caffè sotto i tisici ippocastani del belvedere, dove
anche la mia bella vicina stava ammirando l'infocato tramonto e,
all'orizzonte, il lungo arco, la magnifica pompa lontana della nevi
eterne. Ma io non guardavo il cielo, nè le Alpi, nè lei; guardavo là in
faccia, oltre il lago scuro affondato ai nostri piedi in un abisso di
settecento metri, oltre la prima fronte erbosa della montagna opposta,
uno scoglio colossale con la sua famiglia di torrioni diroccati attorno,
noto e caro agli occhi miei da molti anni. Sono stato un fanciullo timido
e orgoglioso. A sedici anni, con la testa piena di Leopardi e di Victor
Hugo, di panteismo e di pessimismo, con un gran disprezzo esteriore
dell'umanità e un'intima disperata voglia d'esser lodato dagli uomini e

amato dalle donne, m'era venuta la melodrammatica idea di farmi
seppellire lassù. Non vedevo lo scoglio da un pezzo, esso ignorava
affatto i miei stupidi amori con la signora, e tutti i pensieri della mia
adolescenza, mezzi falchi e mezzi passerotti, vi avevano ancora il nido.
V'erano ancora le mie malinconie calde, l'orgoglioso sdegno di ciò che
udivo da' miei compagni chiamar l'amore, i fantasmi femminili che soli
mi parean degni di me. Se allora mi avessero detto: t'invischierai
senz'amore, per debolezza, a una donna che ti avrà cercato senz'amore,
per vanità, avrei risposto: no, mai! E invece! Non avrei davvero
meritato di giacer solo, da poeta delle montagne, in quel sublime
sepolcro.
Mi diedero una camera con due finestre al Nord. Anche alla sera vidi lo
scoglio nero coronato di stelle, che mi gittava in faccia i ricordi della
mia adolescenza pura e superba. Tentai lavorare; dalle mie prostrazioni
di spirito basta qualche volta a rialzarmi l'ala d'un verso felice. Mi
provai a disegnare una tela d'idillio, pensai alla bella giovinetta dalle
braccia di latte, alla sua fontana sul crocicchio, alle finestre fiorite di
garofani; pensai anche a Lei, mi perdoni, amica mia. Ella sa il mio
metodo di lavorare; piglio una figura vera e ci filo attorno poesia,
seguendone le forme e insieme nascondendole altrui. Ma quella sera
non trovai un solo filo fine e forte, non feci che imbrattar carta
inutilmente. Mi cadde il cuore.
Cosa dice Heine? «Il mio cuore somiglia al mare.» Io, piccolo poeta,
dirò solo che il mio cuore somiglia ad una laguna misera, senza perle
nè coralli, che tuttavia ascende e ricade come il mare, ogni giorno, per
la propria natura e l'arcano influsso di qualche potenza occulta nel
cielo.
L'indomani mattina mi arrivò la lettera di Ginevra. Mi si attendeva fra
dodici giorni, dopo i quali ci saremmo trovati soli e senza sospetto. In
seguito a questo esordio venivano raccomandazioni solenni che
parevano rimproveri; mi si proibiva la menoma famigliarità. Tutto ciò
mi parve gesuitico e disgustoso e mi venne subito in mente di non
andare; ma poichè avevo ancora sei giorni di tempo, mi proposi,
secondo una viziosa abitudine, di deliberare all'ultimo momento.

Intanto la svogliatezza e l'inerzia antica mi riprendevano. Abbandonai
la ricerca dell'idillio; non mi destavano interesse nè gl'italiani, nè la
bella signora bionda, nè alcun'altra persona dell'albergo. Passavo le mie
giornate vagando col cuor pesante per le campagne, sedendo lunghe ore
sull'erba ad ascoltar il vento e a contemplar i moti lenti delle ombre. I
castagni di Pellio, i prati del pian d'Orano, le gole solitarie della Val
Mara devono ricordarsi di me. Nelle mie corse non incontravo mai
nessuno; non vedevo esseri civili che alla table d'hôte, sempre
silenziosa e solenne.
La sera del primo luglio, verso le dieci, stavo leggendo nella mia
camera colle finestre aperte quando udii suonare sul cattivo piano della
sala di conversazione la Gran scena patetica di Clementi, che ho udita
da Lei tante volte. La mano mi parve eccellente, e discesi. Suonava una
signora inglese e c'erano in sala, credo, tutti gli ospiti dell'albergo. La
sala è a pian terreno; ha una porta e due finestre sulla fronte
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