rotta. Fra i quali Alessandro Trissino con altri riparò a Chiavenna, donde scriveva al concittadino suo Lionardo Tiene, perché con tutta la città abbracciasse una volta a viso aperto la riforma.
I Socini di Siena avevano intanto spinta più logicamente la libera interpretazione del Vangelo; e, invece di arrestarsi a confini arbitrarj, negarono la Trinità e in conseguenza la redenzione. Fu loro discepolo Giampaolo Alciato da Milano, che predicò a Ginevra(15) ed in Polonia con l'altro sociniano piemontese Giorgio Biandrata; e Calvino, che visto il trascendere della riforma pensava frenarla coll'autorità che aveva scassinata, avventò contro lui parole certo non tolte dal Vangelo: "uom non solo di stolido e pazzo ingegno, ma di affatto farnetico sino alla rabbia". E Teodoro Beza, altro caporione, lo intitolò "uomo delirante e vertiginoso" onde, mal sicuro a Ginevra, ricovrò verso il 1560 a Chiavenna.
Nella visita fatta alla Valtellina nel 1594, il Ninguarda vescovo di Como trovava ricovrati a Sondrio parecchi sbanditi dalla patria, singolarmente artefici di Cardona e del Bresciano; Natalino da Padova, Calandrino da Lucca, Luigi Valesano prevosto di San Mojolo; a Boalzo il domenicano Forziato Castelluzio calabrese; a Poschiavo, frate Agostino agostiniano d'Italia (forse è il suddetto Mainardi), che già aveva tratto dalla sua un quarto degli abitanti; a Morbegno avevano messo famiglia Giulio Sadoleto di Modena, Bernardo Passajotto vicentino, Pier Giorgio d'Alessandria sartore, Giovan Battista ed Aurelio Mosconi del Polesine, Francesco Rapa di Musso, Paolo Benedusio e Giovanni Antonio Corte di Gravedona e vi predicava Girardo Benedettino di Fossano piemontese.
Caspano, il semenzajo della nobiltà valtellinese, abbondava più che altri di evangelici, come essi si intitolavano o di eretici come gl'intitolavano i nostri, ai quali predicava Angelo cappuccino piemontese; Lorenzo Gajo di Soncino minor osservante predicava a Mello, e un cappuccino a Traona. In altri libri scontrai Ottaviano Mej lucchese(16), uomo di grande erudizione in greco ed ebraico, e di virtù lodatissima, che per lungo tempo fu ministro in Chiavenna e morì nel 1619; Antonio dei Federici di Sonico in Valcamonica stava a casa in Teglio. Ortensia Martinenga contessa di Barco(17) viveva a Sondrio. Isabella Manrica di Bresegna napoletana, ricchissima e colta e in relazione con Annibal Caro, stette a Chiavenna in povertà e ritiro, alla quale dedicarono Celio Curione la vita della Morata, e frate Ochino l'opera della presenza di Cristo nel Sacramento. Marcantonio Alba di Casale Monferrato era predicante in Malenco. Plinio Parravicino comasco a Vicosoprano. Antonio Tempino di Gardona in Teglio. Vincenzo Parravicino comasco, ministro nei Grigioni, voltò dal francese in italiano il trattato di Mestrezat sulla comunione di Gesù Cristo nel sacramento della cena. Aggiungiamo frà Francesco Carolini, Paolo Barretta ed Antonio Crotti da Schio vicentino; altri ce ne verranno nominati nel processo di questo racconto.
Non so se qui porre il famoso Lodovico Castelvetro, che il Fontanini incolpò, il Muratori difese dall'apostasia. Certo è che Modena, sua patria, andava molto presa alle nuove dottrine; un'intera accademia ne venne accusata, e fin due di provata virtù, Egidio Foscherari vescovo ed il celebre cardinal Morone, n'ebbero a soffrire persecuzione. Il Castelvetro, a parte dell'accademia, fu pure a parte dei guai. Entrò poi con Annibal Caro in una di quelle baruffe delle quali di tanto in tanto i letterati italiani rinnovano lo stomachevole spettacolo. E allora, come adesso, non si agitavano solo coi reciproci strapazzi e col prezzolare la penna di quei petulanti per cui è un bisogno l'odiare e il farsi odiare, e che non avendo bontà che fregi la memoria loro aspirano alla fama di Erostrato, insozzando altrui col proprio fango, ma correvano le coltella e i titoli infami e (se ne consolino i nostri) l'infame spionaggio: e il Caro, o i partigiani di lui, scesero alla codardia di rapportare il Castelvetro al Sant'Uffizio. Il Sant'Uffizio non era un ministero, con cui fare a credenza. Onde il Castelvetro per timore degli esorbitanti rigori dell'inquisizione, colpa o no che ne avesse, riparò a Basilea, a Lione, a Ginevra; poi con Giovanni Maria suo fratello si condusse a Chiavenna(18). Quivi si avvenne a Francesco Portocretese, amico suo d'antica data, già lettore di greco in Modena e in fama dei più dotto uomo d'allora, il quale già era con lui stato involto nell'affare dell'accademia, poi vissuto con Renata d'Urbino, e scoperto aderente a Calvino aveva dovuto dar un addio all'Italia. Il Castelvetro, per compiacere a molti giovani studiosi, teneva in Chiavenna ogni giorno una lezione sopra Omero ed una sopra la Rettorica ad Erennio, discretamente sofistico, gonfio di sé e sprezzator degli altri e sapendo non credere tutto bello, tutto vero ciò ch'è antico: fors'anco vi leggeva ai giovani quei commenti sul Petrarca che abbiamo a stampa. Secondo il merito lo stimò e lo protesse Rodolfo dei Salis di Solio, il quale a lui morto pose una lapide(19), che diceva come, fuggito dalla patria per iniquità d'uomini malvagi, dopo decenne esilio, finalmente su
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