Il Principe della Marsiliana | Page 3

Emma Perodi
ogni modo esser deputato e che sarebbe un'onta
per me se col mio nome, col mio passato, con le mie aderenze e i miei

mezzi non riuscissi a essere eletto!
--Non le capisco certe vanità,--diss'ella alzando gli occhi al
cielo.--Quando uno si chiama Urbani non ha bisogno di tenere a un
titolo che il popolo può conferirgli, e può anche ritorgli.
--I tempi sono cambiati, bisogna camminare con essi se non si vuol
restare schiacciati e soffocati appunto da questo pondo grandissimo che
il passato ci ha posto sulle spalle; bisogna far qualcosa noi pure per
esser degni degli avi.
Il principe pronunziava queste parole con voce monotona, senza nessun
sentimento, come una lezioncina imparata a mente. E infatti da quindici
giorni la ripeteva di continuo a sè stesso per dirla in ogni occasione.
La principessa lo ascoltava a testa bassa, come se riprovasse quelle
massime.
--Dunque che cosa vuoi?--gli domandò parlando sempre con voce
nasale e a denti stretti, come chi ha la consuetudine di servirsi della
lingua inglese.
--Voglio che tu mi accompagni stasera all'adunanza elettorale.--Quel
nome di osteria faceva ribrezzo anche a don Pio e non poteva
pronunziarlo.
--E dove?--domandò la principessa, alzando in volto al marito due
occhi piccoli e fieri.
--Da Muzio Scevola.
--E che luogo è?
--Una locanda, dove mi danno una cena elettorale.
--Non ci vengo.
--Ma, Camilla, pensa a quello che fai; mi tacciano di clericale per colpa
tua; per colpa tua non sarò eletto; io voglio riuscire deputato, e tu, tu

devi venire.
--Non vengo,--rispose la piccola signora sedendosi.--Tu sei padrone di
derogare al tuo nome, alla tua nascita, ma non puoi imporre a me di
avvilirmi. Io, oltre a esser custode del nome tuo, sono anche custode di
quello di mio padre; sono una Grimaldi, lo sai.
E fieramente alzò la piccola testa dal volto pallido, sul quale non si
leggeva altro che una grande espressione di fierezza.
--Camilla, tu sei la mia rovina,--disse il principe, uscendo senza
stenderle la mano.
Nella galleria lo attendeva il suo cameriere per infilargli il soprabito e
presentargli i guanti, il bastone e il cappello.
Don Pio, calmo in apparenza, dette alcuni ordini, scese le scale
inchinato dai servitori, e dopo essersi seduto nel _phaéton_ prese in
mano le redini dei cavalli e uscì dal palazzo.
Era quasi notte quando il _phaéton_ si fermò sulla piazzetta dinanzi
all'osteria, già illuminata dai lampioncini colorati, e il principe, sceso
prontamente, si trovò a fianco Fabio Rosati e il sor Domenico, il quale
si tolse il cappello a cencio e gli disse a bruciapelo:
--Non mi ha voluto dar retta e le cose si imbrogliano. Faremo un buco
nell'acqua se non viene la principessa.
Don Pio infilò il braccio familiarmente in quello del sor Domenico e
tirandolo in disparte gli disse:
--Che volete, la principessa non c'entra per nulla nella mia elezione; le
signore hanno idee che noi dobbiamo rispettare, ma che non dividiamo.
--Lo capisco,--diceva il sor Domenico spartendosi con le dita la lunga
barba, come soleva fare quand'era soprappensieri,--lo capisco, ma lei sa,
Eccellenza, che abbiamo da far con certa gente cocciuta e siamo in certi
tempi...! Basta, vedremo; bisognerebbe che per amicarsi i trasteverini

lei avesse qualche buona promessa in riserva e la manifestasse stasera.
--Vedremo,--disse il principe ritornando verso Fabio Rosati, che era
circondato da un gruppo di persone ben vestite e parlava a bassa voce
con loro.
Appena a quel gruppo si avvicinò don Pio tutti si tolsero il cappello e si
fecero addietro alcuni passi. Il principe stese la mano all'ingegnere
Marini e al professore Arnaldi. Fabio Rosati gli presentò subito quelli
che non conosceva.
--Il signor Massa, giornalista,--disse accennando un giovinotto pallido,
con le scarpine lucide e l'aria spavalda,--il signor Caruso, giornalista
pure--aggiunse accennando un omaccione grasso, dallo spiccato tipo
meridionale con le lenti sul naso e una barbetta rada sulle guance
butterate dal vaiuolo.
Il principe della Marsiliana fece un passo verso i due rappresentanti
della stampa e stese loro la mano.
In quel momento la sora Lalla, grassa, rossa, tutta catene e pendenti
d'oro, comparve in cima alla scaletta dell'osteria, e, con le mani sui
fianchi esuberanti, si mise a gridare:
--Ma insomma, volete proprio che tutto vada ai cani! Venite o non
venite?
Il sor Domenico, che aveva per la sua vecchia compagna un affetto
grandissimo, un affetto in cui entravano i ricordi giovanili, la
gratitudine per il coraggio mostrato da lei quando egli era in carcere a
San Michele, da dove lo aveva fatto scappare, e la stima per la sua
proverbiale onestà, sorrise e disse volgendosi al principe:
--Credo che Lalla abbia ragione; è tempo di andare a cena se si vuol
mangiare.
Il principe, col fare disinvolto del gran signore che sa subito adattarsi al
luogo dov'è e alle persone che lo circondano, salì in fretta la
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