aver discusso alcun poco in dialetto
grigione col padre, mi s'era rivolta dicendomi in italiano sgangherato
che il padre non capiva e che se volevo porre un'epigrafe sul piccolo
albergo, la dettassi a lei.
Fu così che sul ricovero di pace e di salute lampeggiò in lettere d'oro
l'iscrizione:
VENITE, DOLENTES.
E i dolenti venivano, uscendo dalla ressa delle città, pallidi e smunti, e
cercavano il silenzio, la vita semplice, l'armistizio di pochi mesi nella
battaglia rabbiosa di tutto l'anno. E v'ero venuto io medesimo, ora
curvo per la morte di mia madre, indimenticabile figura di donna bruna
e nobile; ora freddo, caustico, per l'opprimente perizia degli inganni;
ora scosso e attonito per la morte inaspettata di mio padre; ora vuoto ed
aspro per diffidenza degli altri e di me stesso; e ogni volta, l'anima
aveva ricongiunte le ferite, s'era dilatata nel silenzio, s'era compiaciuta
di quella grande e libera solitudine.
Al caro luogo avevo prestata quasi una simbolica potenza di farmaco.
Vi sognavo bene, come in città non era possibile, e vi attingevo preziosi
cumuli d'energia morale; talchè nelle gioje lo desideravo per meglio
compenetrarle, e nei grandi dolori per essere umile innanzi a superbi
spettacoli di paesaggio.
L'albergo del signor Pfaff era situato fra Splügen e Andeer, sulla via
per Coira, in posizione così felice che sempre, quando la diligenza vi si
fermava dinanzi, erano esclamazioni ammirative fra i viaggiatori.
Poichè, dietro la casa, i prati si stendevan verdemente fino al Reno,
indomato ancora e ruinoso; davanti eran la strada postale e la lunga
serie di pinete che costeggian quella strada per notevole tratto; la conca
nella quale l'albergo ha fondamento, è formata da montagne, alcune
ricche d'abeti e di lecci, altre brulle quasi il fuoco vi sia passato con
indileguabil traccia di devastazione. Intorno, vie numerose conducono
ai boschi, ai villaggi, ai monti; una, poco aperta allo sguardo, dietro la
casa del signor Pfaff, costeggia il Reno, avvallata fra gli alberi fitti, e
conserva l'indole selvaggia delle strade raramente percorse.
Più in alto, al disopra dell'albergo, il villaggio di Sufers, con quelle case
metà di legno e metà di pietra, che danno sùbito l'imagine della
Svizzera, come le pagode caratterizzano l'India e gli edifici a più tetti e
a sesto acuto indicano la Cina. Spesso, in quel villaggio di Sufers,
preziosamente conservati sul davanzale delle finestre, alcuni vasi di
geranî e di garofani, risvegliano una nota d'allegria gentile.
Noi eravamo diretti al ricovero di pace, non dolenti, ma lieti anzi
d'inesprimibile contentezza.
Avevo pregata io Lidia di seguirmi lassù, perchè mi pareva ed era triste
cosa di non aver raccolte in un sol luogo ed in un successivo spazio di
tempo le più pure nostre memorie.
Un po' di vanità femminile aveva forse giovato a convincer Lidia del
mio disegno; l'idea di varcare il confine e di veder costumi nuovi, le era
parsa men comune e preferibile a un pellegrinaggio per città italiane,
notissime a tutti; ne' suoi viaggi colla famiglia, non s'era mai spinta
oltre il lago di Como o il lago Maggiore.
Salimmo nella carrozza da posta verso mezzogiorno. L'antico veicolo
dipinto in giallo e rosso e tirato da quattro cavalli, ci poteva illudere un
istante di non vivere in un'età insopportabilmente civile e meccanica.
Noi avevamo agio a gustare la bellezza dei luoghi e ad aspirare una
purissima aria montanina, comecchè il giorno fosse ricco d'azzurro e di
sole.
Nella scossa che il veicolo ci comunicò mettendosi in moto, Lidia mi si
appoggiò tutta, ridendo, ed io le strinsi le mani. D'improvviso, mi
ricordavo una molestia patita il mattino stesso durante il viaggio in
battello da Como a Colico. V'era salito un giovane elegante, il quale
non aveva smesso di guardar Lidia con occhiate da scapolo esperto,
date a tempo e in modo che la persona osservata non se ne avvedesse.
Per l'insistenza stupida dell'ammiratore, avevo sofferto con ridicola
intensità, e pretestando l'aria troppo fresca, avevo finito per invitar
Lidia a discender meco sotto-coperta.
Era un principio di gelosia vaga? Senza dubbio, quantunque incoerente
col mio intero passato; non ero mai stato geloso d'alcuna donna, o
perchè non ne valeva la pena, o perchè sapevo allora dominarmi. Ma
indubitabilmente d'ora innanzi, gli sguardi, i sorrisi, le parole dirette a
Lidia, m'avrebbero fatto male; potevo affermarlo con sicurezza quasi
matematica.
Ciò era necessario e illogico siccome ogni paradosso di sentimento.
Lidia era bella, e non d'una bellezza così capricciosa da risvegliar
l'attenzione di pochi intelligenti; ma d'una bellezza fresca, ingenua,
assai pura, che avrebbe stimolato il desiderio perverso, quel desiderio
del male, del corrompere, dell'insozzare un'anima il quale è peggiore di
gran lunga d'ogni desiderio sensuale, e pur s'annida in fondo al cuore di
molti uomini.
Si sarebbe annidato fors'anco in fondo al mio cuore, se io fossi stato
estraneo a Lidia; anzi, peggio, vi s'era annidato
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