camicia lasciava il braccio nudo. Vidi passar negli occhi di Lidia il quesito insolubile di darmi la mano coprendo il braccio; ma cedette all'inattuabilità di tale disegno; nel movimento un po' precipitoso, le coltri si smossero, ed io le rattenni, e per stabilire e mantenere l'insperato vantaggio, rapidamente dalla poltrona passai sul fianco del letto, mentre istintivamente Lidia si ritraeva facendomi posto.
L'atto riuscì seducentissimo nella sua schiettezza; la cortesia femminile dominava la verecondia per un lampo e si faceva incontro alla dolce necessità di cedere. Vidi e compresi, e la improvvisa intelligenza di quel moto mi provocò un brivido lungo.
Non ero più nè ilare, nè tranquillo; consapevole d'una veniente tristezza. Il mio amore invadeva l'animo con tale veemenza, da sgominarlo, e farlo debole. Sorgeva misteriosa e meglio che da qualunque legge, da quella verginità, tutta profumo e sorriso, ch'io stava per distruggere,--la comprensione di quanto io doveva alla fanciulla sacrificata.
All'ultimo baluardo, invece del goloso desiderio, io incontrava una tenerezza mesta ingiustificabile, da avaro innanzi al tesoro lungamente accarezzato. L'avaro non avrebbe voluto spenderlo, avrebbe voluto aspettar tuttavia, gioirne tuttavia, promettersi e negarsi la frenetica sensazione di tuffar le mani nell'oro, forse meritarsela di più.
Io soffriva dell'attimo fuggente e dell'irreparabilità della conquista.
Passai adagio le braccia sotto il busto di Lidia, attirandola a me. Ella teneva gli occhi chiusi e il suo pallore mi spaventò.
--Anima,--susurrai,--soffri?
--No,--rispose Lidia, aprendo gli occhi.
La luce delle due lampade si projettava troppo intensa. Lasciai Lidia e smorzai quella ch'era sulla tavola; ora la penombra si faceva tutelare e propizia; ma tornando al mio posto, di nuovo il pallore della fanciulla mi spaventò. Ella mi guardava smarrita, e un'agitazione ch'era male vero, cresceva in lei, le pulsava nel petto, nelle arterie, moltiplicandone il ritmo. Tentò di togliersi alla mia stretta e si trovò sùbito libera. Erta sul busto, colle braccia rigide che le facevano sostegno, rimase un attimo indecisa.
--Ho paura!--esclamò poi.--Non per te, Sergio, ma ho paura! Perdonami!
Le salivano convulsi alla gola singhiozzi senza lagrime; chino su di lei, le mie mani sentivan le ciocche de' suoi capelli, morbide e lisce, disordinate per il guanciale. Non osavo muovermi nè parlare; lucide, lancinanti, memorie di spose morte così fra i primi amplessi del marito, mi si piantarono nel cervello. Ma come ella avesse intuita la mia angoscia superiore alla sua, Lidia mi gettò le braccia al collo.
--Perdonami!--disse nuovamente.--Ho paura!
Noi ci cercammo le labbra, e al caldo contatto infine le lacrime di Lidia proruppero, mi caddero brucianti sulle mani, chiamarono le mie; la crisi quietò Lidia a poco a poco, lasciandola colla testa sul mio petto, gli occhi chiusi, da' cui angoli scorrevan deliziosissime e infantili le lagrime. Non so quanto così rimanessimo, vittime d'un arcano fascino.
Quasi sentivamo i gravi silenzi della casa circondarci lentamente e addormentarci la coscienza dell'ora. Tutt'e due sulla soglia d'una felicità agognata, rimanevamo titubanti, malinconici e paurosi, perchè nulla più del presente doveva tornare. Ella s'era distesa nel letto, quasi calma; io la baciava adagio sui capelli, sugli occhi, sulla bocca, sul collo, sulle mani, naufragante in un'onda voluttuosa. L'avaro assaporava il suo tesoro che aveva anima e forma, e si sferzava col ricordo di tutte le caducità umane per togliersi al pazzo bisogno di serbare il tesoro intatto.
Quindi, la fanciulla ridivenne fiduciosa. E così l'attimo fuggente si dileguò.
III.
Parecchi anni addietro, al buon signor Pfaff, io aveva domandato un giorno:
--Perchè non mettete un'epigrafe sul vostro ricovero di pace e di salute?
Il signor Pfaff m'aveva guardato senza rispondere, ed era stata la figlia a spiegargli il mio concetto.
La signorina Silesia Pfaff, dopo aver discusso alcun poco in dialetto grigione col padre, mi s'era rivolta dicendomi in italiano sgangherato che il padre non capiva e che se volevo porre un'epigrafe sul piccolo albergo, la dettassi a lei.
Fu così che sul ricovero di pace e di salute lampeggiò in lettere d'oro l'iscrizione:
VENITE, DOLENTES.
E i dolenti venivano, uscendo dalla ressa delle città, pallidi e smunti, e cercavano il silenzio, la vita semplice, l'armistizio di pochi mesi nella battaglia rabbiosa di tutto l'anno. E v'ero venuto io medesimo, ora curvo per la morte di mia madre, indimenticabile figura di donna bruna e nobile; ora freddo, caustico, per l'opprimente perizia degli inganni; ora scosso e attonito per la morte inaspettata di mio padre; ora vuoto ed aspro per diffidenza degli altri e di me stesso; e ogni volta, l'anima aveva ricongiunte le ferite, s'era dilatata nel silenzio, s'era compiaciuta di quella grande e libera solitudine.
Al caro luogo avevo prestata quasi una simbolica potenza di farmaco. Vi sognavo bene, come in città non era possibile, e vi attingevo preziosi cumuli d'energia morale; talchè nelle gioje lo desideravo per meglio compenetrarle, e nei grandi dolori per essere umile innanzi a superbi spettacoli di paesaggio.
L'albergo del signor Pfaff era situato fra Splügen e Andeer, sulla via per Coira, in posizione così felice che sempre, quando
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