sarebbe chiamato il disonore.
Con maravigliosa mutazione, pel semplice fatto che l'amore, così insofferente di forme e di nomi, aveva preso nome e forma di matrimonio, tutto quanto era proibito, condannato, scandaloso prima, diventava lecito, onesto, doveroso adesso; un bacio, un abbraccio, una notte, più notti, un giorno, più giorni d'intimità, erano cosa buona; e se io avessi dato il bacio, tentato l'abbraccio, passata una notte con Lidia, avanti ch'io avessi potuto chiamarmi suo marito, Lidia sarebbe stata perduta, e suo padre avrebbe avuto il diritto d'uccidermi e di farsi applaudire come un istrione alla ribalta.
Ciò non era logico, ma necessario, il che è ben diverso; tanto diverso che la considerazione de' miei diritti improvvisi su Lidia mi dava un umor chiaro, allegro, piacevole.
Sapevo il significato di quanto era per avvenire; significato di sì grande rilievo che da esso dipendon quasi sempre le sorti di due esistenze.
Mi richiamavo alla memoria delle letture fatte sull'argomento in altra età, per una speranza di possibile eclettismo che mi servisse di guida; ma mi sembravano ingenue o inadatte al paragone. L'unica mia guida dovevo essere io medesimo e trovare nel mio passato quelle cortesie, e quelle delicatezze e quelle audacie che l'esperienza m'aveva insegnate ottime, se non in casi identici, almeno in casi di qualche somiglianza col presente, se non in una prima notte di matrimonio, almeno in una prima notte.
Accostarmi a Lidia come un amante a un'amante, era possibile e bello; ma Lidia, la mia amante, era una fanciulla e il nostro amore non aveva termine, e ogni falso o corrotto insegnamento si sarebbe trasformato in un germe pericoloso del quale avrei colto io il frutto.
Quindi, potevo e dovevo essere l'amante, ma un amante castigato, limitato, rettissimo.
Volgendo nel mio animo questi pensieri, m'ero ritratto dalla finestra ed ero venuto ad appoggiarmi colle braccia sul marmo del cassettone. Innanzi, lo specchio mi rifletteva pallido con un sorriso un po' convulso, e la lucentezza dello sparato chiuso quadratamente nell'abito, mi dava un'aria quasi severa.
Il profumo dei fiori vibrava fortissimo alle nari; dall'uno lato e dall'altro dello specchio, due vasi di porcellana traboccavan di narcisi e di garofani e d'anemoni e d'altri fiori vigorosi. Levai dal gruppo folto una gardenia, che soffriva più dei compagni e la passai nell'occhiello.
C'eran molte persone, le quali pensavano a noi in quell'istante. La nuova del mio matrimonio s'era sparsa per Milano e fuori con rapidità e maraviglia. Gli amici non si figuravano me nella notte presso Lidia? non analizzavano con cinica irreverenza il nostro amore che s'iniziava? nell'ombra non si preparavan già delle insidie? Io avrei trovati i mezzi d'intercludere il passaggio a qualunque insidia tesa sulla via della mia donna.
E anche questo dipendeva dal momento in cui ero. Laura Uglio non era tornata dalla prima notte di matrimonio così nauseata, da giustificare il suo adulterio avvenuto tre mesi dopo? Angela Tintaro non aveva nella prima notte di matrimonio giurato di darsi a una donna, e a uomini mai più? Quanti mariti maldestri non avevano in poche ore mutata una fanciulla in un'impura colomba, presto insaziabile? Aneddoti sparsi nelle mie memorie, dei quali capivo a un tratto la sapienza....
Secchi e sonori per l'amico silenzio, l'orologio del giardino diffuse dodici colpi.
Li contai adagio, smorzai i lumi, lasciando accesa la sola lucerna pensile. Mi diedi un ultimo sguardo nello specchio: la gardenia, lo sparato candido, l'abito nero, anche il viso molto pallido, sembravano giovarmi. Al momento d'aprir l'uscio, ero tranquillo; meglio, ero ilare e sicuro di me; avevo un indiavolato bisogno di scherzare. Apersi, passai nel salotto oscuro, ma grave di profumi come la mia camera. Un sottil filo di luce rosseggiava sotto l'uscio della stanza di Lidia: troppo intenso, non poteva provenire dalla lucerna da veglia; era la luce d'una lampada portatile. Posta dove? Non presso il capezzale.
Lidia aveva fatta un'illuminazione nervosa come la mia?
Bussai leggiermente alla porta di Lidia, e mi sentii sorridere.
L'orologio ribattè i dodici colpi nel giardino. Che lampo era stato e che eternità quell'intervallo!
Avvertii un lieve romore: poi il silenzio proseguì dovunque.
--Lidia!--dissi ponendo la mano alla gruccetta dell'uscio.
--Avanti!--rispose con voce soffocata.
Apersi l'uscio e guardai.
Lidia, in accappatojo, coi capelli sciolti, aspettava in piedi presso una poltrona. Da una tavola sotto la finestra, una lampada alquanto attutita dal paralume a smeriglio, sprigionava luce blanda, quasi pulviscolo azzurrato, che veniva a stendersi sui capelli, sulla fronte, sulle guance di Lidia e le dava una stanchezza, come dopo il ballo, al sorger dell'alba. L'atteggiamento della giovane denotava un'apprensione vivissima, tradita pure dal respiro precipitoso che le agitava il seno.
--Non ti sei coricata?--domandai, mentre avanzavo richiudendomi l'uscio dietro le spalle.
Lidia fe' cenno di no colla testa.
--Hai avuto paura?--dimandai di nuovo, prendendole una mano.
Lidia fe' cenno di sì.
Mi sedetti sulla poltrona a cui ella era appoggiata, e tenendo tutt'e due le mani di Lidia, attrassi la fanciulla sulle mie ginocchia.
--Vediamo,--dissi, posandole le labbra sulle
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