fu data da' suo' maggior per isposa una
donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per
costumi, come per nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni
visse, e di lei generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si
fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le
piacque di rinnovare il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri;
comeché il vocabolo poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto,
rimanesse Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che
discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli
Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale, comeché
alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante
Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri,
il quale piú per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui
donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide
quale doveva essere il frutto del ventre suo; comeché ciò non fosse
allora da lei conosciuto né da altrui, ed oggi, per lo effetto seguíto, sia
manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro,
sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia
partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo
dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e dell'onde della chiara fonte,
le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere
delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi,
le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il
vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe
il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto
venne, e partorí uno figliuolo, il quale di comune consentimento col
padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché
ottimamente, sí come si vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel
Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi
fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse, sbandite
d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è
dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti
numeri è regolata; per costui la morta poesí meritamente si può dir
suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che
Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.
III
SUOI STUDI
Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante il
romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni della
salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa da
assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora
correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare il ragionare della sua
infanzia, nella quale assai segni apparirono della futura gloria del suo
ingegno, dico che dal principio della sua puerizia, avendo giá li primi
elementi delle lettere impresi, non, secondo il costume de' nobili
odierni, si diede alle fanciullesche lascivie e agli ozi, nel grembo della
madre impigrendo, ma nella propia patria tutta la sua puerizia con
istudio continuo diede alle liberali arti, e in quelle mirabilmente
divenne esperto. E crescendo insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno,
non a' lucrativi studi, alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si
dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto],
sprezzando le transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver
piena notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento di
quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio, d'Orazio,
d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non solamente
avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando, s'ingegnò
d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso a suo
tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere vane o
semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé
dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche avere nascosti; per la
quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale filosofia,
le poetiche intenzioni avere non si potevano intere; partendo i tempi
debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori
s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno, d'intendere. E, preso
dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo,
niuna altra piú cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del
tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede. E,
accioché niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle
profonditá altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu
dalla intenzione l'effetto lontano, percioché, non curando né caldi né
freddi, vigilie né digiuni, né alcun altro corporale disagio,
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