Fino a Dogali | Page 3

Alfredo Oriani
così spiattellati non conservavano che gli occhi, i capelli e le barbe: qualche sorriso o qualche urlo in un angolo aprendo una bocca lasciava brillare fugacemente una bianchezza di denti entro una oscurità più piccola e più densa; molte cravatte rosse mettevano sulle vesti certe righe di sangue che il balenìo bianco delle fibbie di acciaio sui cappelli, simile a un balenìo d'armi, avrebbe potuto a una fantasia troppo eccitabile spiegare sinistramente. La folla strepitava scherzando con tale veemenza che sembrava di minaccia. E non vi erano o non si vedevano signori. L'impressione era di una immensa plebe, sciaguratamente vestita a festa e quindi anche più brutta, che aveva tutto inondato con un senso feroce di conquista. La gente cacciatasi nei palchi non vi si poteva calmare, inebbriata di quella specie di sfregio fatto intenzionalmente ai padroni assenti, troppo timidi per difendere i propri palchi, mentre il Municipio, vile al solito in faccia alla folla, aveva persino ceduto i palchi non suoi.
Le vanterie dell'assalto rimbalzavano da palco a palco ora che tutti erano rivoluzionalmente occupati. Molte mani gesticolavano per aria in segno di trionfo o agitavano cappelli: parole oscene scoppiavano, affermazioni superbe di monelli che gremiti nel palco della Prefettura e della Giunta municipale vi assumevano con grazia scimmiesca atteggiamenti gravi di magistrati, ma per lanciare subito altre urla di gazzarra, ricomponendosi a un rimbrotto inaspettato, accendendo tutti i razzi di un riso inconscio e strepitoso, pel quale l'aspettazione di quanto deve succedere vale più di quanto succederà. Poi le figure accigliate e le pose impettite dei ribelli importanti sempre in agguato per cogliere una circostanza nella quale mostrarsi e che disseminati nei palchi col piccolo cappello floscio sull'occhio sogguardavano con occhiate brevi di padroni, assorti in un raccoglimento di oratori che si dispongano ad improvvisare, o vigili in una curiosità d'impresarii che temano per il proprio spettacolo. Fra di essi brillavano a forza di medaglie le vanità legittime, ma appunto per questo meno simpatiche, dei veterani garibaldini col cappello sormontato da penne, affettanti nell'orgasmo di tutti una boria che la grandezza dei fatti compiuti poteva certamente giustificare, ma che la semplicità eroica del loro modo non consentiva; e questi fra la nuova folla dei giovani rivoluzionari, ai quali Garibaldi non piace più, sembravano dispersi, talvolta incoraggiati da sorrisi, tal'altra rattenuti dal sarcasmo di una occhiata o di una parola.
A mano a mano che il teatro si stipava, cresceva il rumore. Il primo ordine dei palchi, quantunque gli usci ne fossero aperti, era stato invaso dai parapetti; la gente arrampicatasi sul basamento vi si era lanciata strepitando, cadendo a grappoli sui sedili, brancicando le tendine, strappando e ridendo. Pareva una festa. Agli altri ordini, i primi arrivati s'erano chiusi nei palchi e ricusavano d'aprire agli ultimi. Pochi o nessuno fra i proprietari invece aveva però osato far questo o, facendolo, aveva ceduto il posto d'onore a qualcuno della plebe come a un parafulmine che dovesse difenderlo in caso d'uragano nella platea o nel loggione. Quindi rintronavano pugni negli usci, urla di minaccia e di scherno. I conquistatori già calmi nel diritto fondamentale della proprietà, l'occupazione, sentendo percuotere sulle porte si voltavano dai parapetti con sorrisi di sprezzo o guardavano per le griglie e, se per caso era un proprietario diventato coraggioso per curiosità, si consultavano sul caso e finivano quasi sempre per aprire. Ma il proprietario doveva restare nel fondo del palchetto. Tra il frastuono della gente che strepitava per strepitare, così ingannando il tempo dell'attesa, si coglieva l'insistenza di certe voci, ed erano di compagni che dispersi nell'impeto dell'ingresso in teatro tentavano invano di riunirsi, giacchè abbandonando il proprio posto si era bensì sicuro di perderlo, ma non già di riguadagnarne un altro.
Molti invece si drizzavano gettando un grido, tentando un gesto nello spasimo di attirare l'attenzione della folla, e vinti dalla penombra che spesso non li lasciava più nemmeno riconoscere, dalla agitazione di tutti che non badava ancora ad alcuno, ripiombavano sopra sè stessi con certi atti di scoraggiamento, nei quali osservando da vicino si sarebbe forse notato del rancore.
Al quarto ordine ammirabile per disegno, uno dei più belli dell'architettura italiana, coi vani dei palchi quasi in quadro, i parapetti bassi bassi, i tramezzi nascosti da statue di eccellente stile decorativo, la folla si era stipata a piramidi, gli uni sulla schiena degli altri, di maniera che i primi appoggiati col petto sul davanzale sembravano dover soffocare, ed invece ciarlavano. Altri sporgevano temerariamente col busto e avevano gesti da nuotatori guardando in basso, o aggrappati agli stipiti accennavano di passare da palco a palco sullo spessore dei cornicioni, o afferrati ad una statua vi facevano un'oscena macchia nera. Un'immensa allegria saliva dalla fitta platea, s'insinuava nei palchi, scorreva per le corsie, gorgogliava, ricadeva straripando dal loggione. La moltitudine disoccupata e sovrana di sè, non avendo nulla a fare
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