Fino a Dogali | Page 2

Alfredo Oriani
calva e rossa, troppo rossa ai pomelli, gittando intorno un'occhiata diffidente.
--Filomena! gridai alla caffettiera: porta un bicchiere di acquavite a Venanzio.
Questa cortesia lo decise. Abbassò il volto, si strinse nelle spalle e coll'aria di chi confessa un secreto, che tutti sanno ed approvano ma niuno osa rivelare:
--Uhm! Io ho già deciso da un pezzo di chiamare il canonico.
E alludeva all'arciprete diventato canonico in Imola, già annunziato per vescovo, prete signorile e fanatico precisamente all'opposto di Don Giovanni.
Io sorrisi rivolgendomi per rispondere a un gruppo di giovani, che mi avevano già circondato.
Volevano andare a Modigliana collo stendardo della società operaia, poichè il Municipio rifiutava la propria bandiera, ma sempre per l'onore del paese avrebbero preteso un oratore. Io, convinto di molti libri stampati e di parecchie orazioni politiche, solo letterato del villaggio, dovevo prestarmi al loro bisogno. Ricusai. Non avevo e non dissi buone ragioni a ciò: ringraziavo dei complimenti. Essi insistevano esagerandoli; a Modigliana sarebbero convenuti d'ogni parte d'Italia rappresentanti, e quella era bene una circostanza propizia per me e per Casola. Un certo orgoglio paesano vibrava nelle loro frasi; la bontà delle loro intenzioni rendeva simpatica una insistenza già cortese di per sè stessa, e nulla meno una secreta inesplicabile ripugnanza m'impediva di acconsentire. Un non so quale terrore, un presentimento di sventura m'involgeva la coscienza.
Lo compresi più tardi.
Dovetti accondiscendere. Allora avrebbero voluto che prendessi meco in biroccino lo stendardo della società operaia per non portarlo essi sulle spalle faticando pei monti. Feci loro riflettere che la bandiera lunga come una partigiana, dal fodero vivace, sul mio biroccino rosso e piccolo tirato da una rozza veemente e semistorpia, avrebbe reso ridicolo in me il rappresentante, al quale tenevano tanto; mentre a una svolta di strada la punta della lancia avrebbe potuto cavare un occhio a qualche cittadino. Sorrisero e ne convennero.
Io sarei partito l'indomani, essi nella notte in drappello a traverso i monti.
E i discorsi proseguirono. Un vecchio garibaldino d'umore faceto e poetico, che aveva conosciuto Don Giovanni in una campagna con Garibaldi, si pose a raccontare degli aneddoti. In uno di essi, il più piccante, generale e cappellano avevano amato in comune una monaca della carità, gran signora francese, che avrebbe così trovato modo di sfogare con loro il proprio entusiasmo eroico e il proprio sentimento religioso. Il garibaldino leggermente avvinazzato narrava, inventando, i particolari più scabrosi dell'avventura; il pubblico credeva e commentava, dimenticando il riserbo di poco prima e giudicando finalmente Don Giovanni per uomo di coraggio, fortunato nell'essersi fatto un nome col salvare Garibaldi, ma di nessun ingegno e pessimo prete.
Non uno solo nel caffè che lo ammirasse e lo amasse.
Un altro lo paragonò a un prete del paese morto non era guari di apoplessia e vissuto sempre ubbriaco. Il paragone parve esatto. Nullameno qualcuno dei giovani socialisti protestò più per dovere che per sentimento; secondo lui Don Giovanni non era stato un vero prete, ne conveniva, ma tutti gli altri preti non erano veri uomini.
E la discussione deviò.
Sulle dieci tornai a casa. Un amico insisteva ancora per accompagnarmi a Modigliana; avevo acconsentito.
Quando fui solo seguitai a pensare a Don Giovanni. Avevo inteso il suo nome fin da ragazzo nei racconti di famiglia, lo avevo poi letto sovente nei giornali, udito sulle bocche del popolo ad ogni circostanza della epopea garibaldina, ma non avevo visto Don Giovanni che una sola volta.
Ed era stato a Faenza in un Comizio per la morte del Generale.
Il Comizio si teneva nel teatro Comunale. La sua sala piccola ma elegante malgrado alcuni capitali difetti di architettura, male illuminata da poche finestre aperte nei fianchi del palcoscenico, aveva in quel pomeriggio un'aria malinconica e quasi solenne. Una folla bruna e fremente, a volta a volta chiassosa, lo riempiva, lo stipava oscillando, vibrando, sollevandosi, abbassandosi in movimenti ritmici che la facevano assomigliare ad un'inondazione. Tutti i palchi ceduti buono o malgrado dai proprietari erano zeppi di uomini e di ragazzi, che si ammucchiavano sui parapetti, s'ammonticchiavano dietro sui sedili, avvolti nell'ombra cupa della tappezzeria mostrando talvolta la faccia biancastra per un raggio che cadeva di sbieco. Una ondulazione li faceva ogni tanto curvare la testa verso la platea per rialzarla poco dopo verso il loggione con atto curioso ed insieme pauroso. Gli abiti a festa erano generalmente scuri, i cappelli a cencio. Le fisonomie in tale luce non si coglievano, ma si sentiva come una fisonomia generale, un fondo di lineamenti, che rimaneva fermo in quella mezza tenebria e faceva che tutti si rassomigliassero: e, doloroso a confessarsi, l'aspetto del popolo non era bello. Tutte quelle faccie chine, strette, che sembravano toccarsi nella luce scialba filtrante dagli invisibili finestroni laterali del palcoscenico, avevano perduto il rilievo della propria individualità per non parere più che un allineamento di chiazze, nelle quali un giallore di carta pecora sembrava mettere un'ultima verità di malattia. I visi
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