Divina Commedia | Page 7

Dante Alighieri
né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:??Mira colui con quella spada in mano,?che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;?l’altro è Orazio satiro che vene;?Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene?nel nome che sonò la voce sola,?fannomi onore, e di ciò fanno bene?.
Così vid’ i’ adunar la bella scola?di quel segnor de l’altissimo canto?che sovra li altri com’ aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,?volsersi a me con salutevol cenno,?e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,?ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,?sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,?parlando cose che ’l tacere è bello,?sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,?sette volte cerchiato d’alte mura,?difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;?per sette porte intrai con questi savi:?giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,?di grande autorità ne’ lor sembianti:?parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,?in loco aperto, luminoso e alto,?sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,?mi fuor mostrati li spiriti magni,?che del vedere in me stesso m’essalto.
I’ vidi Eletra con molti compagni,?tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,?Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;?da l’altra parte vidi ’l re Latino?che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,?Lucrezia, Iulia, Marz?a e Corniglia;?e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,?vidi ’l maestro di color che sanno?seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:?quivi vid’ ?o Socrate e Platone,?che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ’l mondo a caso pone,?D?ogenès, Anassagora e Tale,?Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,?D?ascoride dico; e vidi Orfeo,?Tul?o e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,?Ipocràte, Avicenna e Gal?eno,?Averoìs, che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,?però che sì mi caccia il lungo tema,?che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:?per altra via mi mena il savio duca,?fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
Inferno · Canto V
Così discesi del cerchio primaio?giù nel secondo, che men loco cinghia?e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:?essamina le colpe ne l’intrata;?giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata?li vien dinanzi, tutta si confessa;?e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;?cignesi con la coda tante volte?quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:?vanno a vicenda ciascuna al giudizio,?dicono e odono e poi son giù volte.
?O tu che vieni al doloroso ospizio?,?disse Minòs a me quando mi vide,?lasciando l’atto di cotanto offizio,
?guarda com’ entri e di cui tu ti fide;?non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!?.?E ’l duca mio a lui: ?Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:?vuolsi così colà dove si puote?ciò che si vuole, e più non dimandare?.
Or incomincian le dolenti note?a farmisi sentire; or son venuto?là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,?che mugghia come fa mar per tempesta,?se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,?mena li spirti con la sua rapina;?voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,?quivi le strida, il compianto, il lamento;?bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento?enno dannati i peccator carnali,?che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali?nel freddo tempo, a schiera larga e piena,?così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;?nulla speranza li conforta mai,?non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,?faccendo in aere di sé lunga riga,?così vid’ io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;?per ch’i’ dissi: ?Maestro, chi son quelle?genti che l’aura nera sì gastiga??.
?La prima di color di cui novelle?tu vuo’ saper?, mi disse quelli allotta,??fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,?che libito fé licito in sua legge,?per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’ è Semiramìs, di cui si legge?che succedette a Nino e fu sua sposa:?tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,?e ruppe fede al cener di Sicheo;?poi è Cleopatràs lussur?osa.
Elena vedi, per cui tanto reo?tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,?che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano?; e più di mille?ombre mostrommi e nominommi a dito,?ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito?nomar le donne antiche e ’ cavalieri,?pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: ?Poeta, volontieri?parlerei a quei due che ’nsieme vanno,?e paion sì al vento esser leggeri?.
Ed elli a me: ?Vedrai quando saranno?più presso a noi; e tu allor li priega?per quello amor che i mena, ed ei
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