Divina Commedia | Page 4

Dante Alighieri
m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,?tu se’ solo colui da cu’ io tolsi?lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;?aiutami da lei, famoso saggio,?ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi?.
?A te convien tenere altro v?aggio?,?rispuose, poi che lagrimar mi vide,??se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,?non lascia altrui passar per la sua via,?ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,?che mai non empie la bramosa voglia,?e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,?e più saranno ancora, infin che ’l veltro?verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,?ma sap?enza, amore e virtute,?e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute?per cui morì la vergine Cammilla,?Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,?fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,?là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno?che tu mi segui, e io sarò tua guida,?e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,?vedrai li antichi spiriti dolenti,?ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti?nel foco, perché speran di venire?quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,?anima fia a ciò più di me degna:?con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,?perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,?non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;?quivi è la sua città e l’alto seggio:?oh felice colui cu’ ivi elegge!?.
E io a lui: ?Poeta, io ti richeggio?per quello Dio che tu non conoscesti,?acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’ or dicesti,?sì ch’io veggia la porta di san Pietro?e color cui tu fai cotanto mesti?.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno · Canto II
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno?toglieva li animai che sono in terra?da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra?sì del cammino e sì de la pietate,?che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;?o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,?qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: ?Poeta che mi guidi,?guarda la mia virtù s’ell’ è possente,?prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silv?o il parente,?corruttibile ancora, ad immortale?secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male?cortese i fu, pensando l’alto effetto?ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;?ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero?ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,?fu stabilita per lo loco santo?u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’ andata onde li dai tu vanto,?intese cose che furon cagione?di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elez?one,?per recarne conforto a quella fede?ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede??Io non En?a, io non Paulo sono;?me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,?temo che la venuta non sia folle.?Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono?.
E qual è quei che disvuol ciò che volle?e per novi pensier cangia proposta,?sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ ?o ’n quella oscura costa,?perché, pensando, consumai la ’mpresa?che fu nel cominciar cotanto tosta.
?S’i’ ho ben la parola tua intesa?,?rispuose del magnanimo quell’ ombra,??l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte f?ate l’omo ingombra?sì che d’onrata impresa lo rivolve,?come falso veder bestia quand’ ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,?dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi?nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,?e donna mi chiamò beata e bella,?tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;?e cominciommi a dir soave e piana,?con angelica voce, in sua favella:
“O anima cortese mantoana,?di cui la fama ancor nel mondo dura,?e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,?ne la diserta piaggia è impedito?sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,?ch’io mi sia tardi al soccorso levata,?per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata?e con ciò c’ha mestieri al suo campare,?l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;?vegno del loco ove tornar disio;?amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,?di te mi loderò sovente a lui”.?Tacette allora, e poi comincia’ io:
“O donna di virtù sola per cui?l’umana spezie eccede ogne contento?di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,?che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;?più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi
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