Divina Commedia: Purgatorio | Page 7

Dante Alighieri
mio», disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da
quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che ’l
cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond’ eravam saliti,
che suole a
riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra
n’eravam feriti.
Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e
Aquilone intrava.
Ond’ elli a me: «Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù
e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor
del cammin vecchio.
Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo
monte in su la terra stare

sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non
seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
se
lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada».
«Certo, maestro mio,» diss’ io, «unquanco
non vid’ io chiaro sì com’ io discerno
là
dove mio ingegno parea manco,
che ’l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun’ arte,
e che
sempre riman tra ’l sole e ’l verno,
per la ragion che di’, quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui
verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché ’l poggio sale
più che
salir non posson li occhi miei».
Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e
quant’ om più va sù, e men fa male.
Però, quand’ ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com’ a seconda giù
andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero;
quivi di riposar l’affanno aspetta.
Più non rispondo, e
questo so per vero».
E com’ elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in
pria avrai distretta!».
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual
né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
come l’uom
per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo ’l viso
giù tra esse basso.
«O dolce segnor mio», diss’ io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se
pigrizia fosse sua serocchia».
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo ’l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or
va tu sù, che se’ valente!».
Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che m’avacciava un poco ancor la lena,
non

m’impedì l’andare a lui; e poscia
ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come ’l sole
da
l’omero sinistro il carro mena?».
Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai:
«Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se’? attendi tu iscorta,
o pur lo modo
usato t’ha’ ripriso?».
Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
l’angel di
Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
per
ch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazïone in prima non m’aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l’altra che val,
che ’n ciel non è udita?».
E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è tocco
meridïan dal
sole e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco».
Purgatorio · Canto V
Io era già da quell’ ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a
me, drizzando ’l dito,
una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo
par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur
me, e ’l lume ch’era rotto.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti
fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la
cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché
la foga l’un de l’altro insolla».
Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa
l’uom di perdon talvolta degno.

E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando
‘Miserere’ a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar
lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’ a noi e dimandarne:
«Di vostra
condizion fatene saggi».
E ’l mio maestro: «Voi
Continue reading on your phone by scaning this QR Code

 / 40
Tip: The current page has been bookmarked automatically. If you wish to continue reading later, just open the Dertz Homepage, and click on the 'continue reading' link at the bottom of the page.