noi siam
peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo
salire omai ne parrà gioco».
L’anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando
diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar
nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d’ire a
farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me
a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi
tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo
lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un
poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però
m’arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’ io son, fo io questo vïaggio»,
diss’ io; «ma
a te com’ è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più
volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto
intrar, con tutta pace.
Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente
fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso
Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea
quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui,
è affannata tanto!».
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza
ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun
toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è
ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza
mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’ elli abbian paura,
subitamente lasciano star l’esca,
perch’ assaliti
son da maggior cura;
così vid’ io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
com’ om che
va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio · Canto III
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove
ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto
su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo
amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’ atto dismaga,
la mente
mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
che ’nverso ’l
ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me
de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’ io vidi
solo dinanzi a me
la terra oscura;
e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu
me teco e ch’io ti guidi?
Vespero è già colà dov’ è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ha,
e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a
l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol
ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una
sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era
parturir Maria;
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato
lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e
rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno
vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella,
agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che
possa salir chi va sanz’ ala?».
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava
suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva,
sì venïan lente.
«Leva», diss’ io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te
medesmo aver nol puoi».
Guardò
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