il latte?de la sua madre, e semplice e lascivo?seco medesmo a suo piacer combatte!?.
Così Beatrice a me com’ ?o scrivo;?poi si rivolse tutta dis?ante?a quella parte ove ’l mondo è più vivo.
Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante?puoser silenzio al mio cupido ingegno,?che già nuove questioni avea davante;
e sì come saetta che nel segno?percuote pria che sia la corda queta,?così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,?come nel lume di quel ciel si mise,?che più lucente se ne fé ’l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,?qual mi fec’ io che pur da mia natura?trasmutabile son per tutte guise!
Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura?traggonsi i pesci a ciò che vien di fori?per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori?trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:??Ecco chi crescerà li nostri amori?.
E sì come ciascuno a noi venìa,?vedeasi l’ombra piena di letizia?nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia?non procedesse, come tu avresti?di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi?m’era in disio d’udir lor condizioni,?sì come a li occhi mi fur manifesti.
?O bene nato a cui veder li troni?del tr?unfo etternal concede grazia?prima che la milizia s’abbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia?noi semo accesi; e però, se disii?di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia?.
Così da un di quelli spirti pii?detto mi fu; e da Beatrice: ?Dì, dì?sicuramente, e credi come a dii?.
?Io veggio ben sì come tu t’annidi?nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,?perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se’, né perché aggi,?anima degna, il grado de la spera?che si vela a’ mortai con altrui raggi?.
Questo diss’ io diritto a la lumera?che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi?lucente più assai di quel ch’ell’ era.
Sì come il sol che si cela elli stessi?per troppa luce, come ’l caldo ha róse?le temperanze d’i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose?dentro al suo raggio la figura santa;?e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che ’l seguente canto canta.
Paradiso · Canto VI
?Poscia che Costantin l’aquila volse?contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio?dietro a l’antico che Lavina tolse,
cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio?ne lo stremo d’Europa si ritenne,?vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
e sotto l’ombra de le sacre penne?governò ’l mondo lì di mano in mano,?e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustin?ano,?che, per voler del primo amor ch’i’ sento,?d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,?una natura in Cristo esser, non piùe,?credea, e di tal fede era contento;
ma ’l benedetto Agapito, che fue?sommo pastore, a la fede sincera?mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,?vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi?ogni contradizione e falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,?a Dio per grazia piacque di spirarmi?l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,?cui la destra del ciel fu sì congiunta,?che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
Or qui a la question prima s’appunta?la mia risposta; ma sua condizione?mi stringe a seguitare alcuna giunta,
perché tu veggi con quanta ragione?si move contr’ al sacrosanto segno?e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno?di reverenza; e cominciò da l’ora?che Pallante morì per darli regno.
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora?per trecento anni e oltre, infino al fine?che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine?al dolor di Lucrezia in sette regi,?vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel ch’el fé portato da li egregi?Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,?incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro?negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi?ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi?che di retro ad Anibale passaro?l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’ esso giovanetti tr?unfaro?Scip?one e Pompeo; e a quel colle?sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle?redur lo mondo a suo modo sereno,?Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,?Isara vide ed Era e vide Senna?e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna?e saltò Rubicon, fu di tal volo,?che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,?poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse?sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,?rivide e là dov’ Ettore si cuba;?e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba;?onde si volse nel vostro occidente,?ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente,?Bruto con Cassio ne l’inferno latra,?e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra,?che, fuggendoli innanzi, dal colubro?la
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