Col fuoco non si scherza | Page 7

Emilio De Marchi
è Sciampagna di dodici lire.... brontolò
Ezio Bagliani, continuando un discorso già avviato nel giardino.
--È del vin d'Asti malvestito in carta d'argento--soggiunse don
Andreino, che andava cercando suoi remi in fondo al canotto.
Dalla voce rauca e sepolta si capiva che Asti o Sciampagna ne avevano
bevuto un poco più della loro sete. C'era nel loro confuso risentimento
anche un segreto rancore contro un così detto Cognac tre stelle, che
don Erminio Bersi aveva travasato agli amici senza economia. Lolò
mezzo istupidito, per quanto annaspasse colle mani, non riusciva a
discernere il capo dalla coda de' suoi remi: e rideva, rideva della sua
incapacità d'un bel ridere fatuo, in faccia alla luna che bianca e tonda
versava sull'acqua una bella luce tremolante.
Tutte le cime dei monti che circondavano il lago si disegnavano nitide
sul cielo: in fondo il Legnone e la Grigna, due colossi, che parevano
ingranditi in una misteriosa trasparenza, e più avanti gli altri monti più
modesti, dai nomi meno conosciuti, dalla fisionomia meno espressiva,
che versavano i loro fianchi ossuti nei golfi oscuri, densi di ombre e di
secreti.
Nella spaccatura della Val d'Intelvi disegnavasi nel palpito lunare una
specie di scena interna, profonda, in cui dominava come su un altare il
Santuario di Sant'Anna.
Tutta la bella Tremezzina era lì spiegata in una sfilata di case immerse
nella gran pace dell'ora notturna, solenne, tremolante di sogni.
--Lavora, fannullone--comandò Ezio Bagliani che nella sua qualità di
vice-presidente della Società dei Canottieri era detto anche il
vice-ammiraglio. E per essere più sciolto si tolse la giacca e il cappello,
che buttò sul sedile di poppa.--Andiamo, in quattro colpi siamo al di là.
--Sento una zampa d'aragosta che mi graffia lo stomaco--sogghignò

don Andreino, che alle prime ondulazioni del canotto credette
veramente che qualche cosa di vivo si movesse in mezzo allo
Sciampagna. Non riuscendo nè di reggersi, nè di star seduto sulla
banchina, andava brancicando in ginocchio tra le assicelle del legno in
traccia d'una pipa che gli era sfuggita dal taschino e di cui non poteva
più far senza.
Il suo compagno, più forte, più superbo, dopo aver cercato di dominare
il suo vino col dirne male, afferrò i remi e colla salda vigorìa de' suoi
ventiquattro anni, riattivata l'energia dei muscoli e svampati i bollori al
soffio dell'aria frizzante, cominciò a battere l'onda con colpi lunghi e
ben assestati, che fecero volare il canotto riluttante tra i larghi cumuli
d'acqua, resi pesanti da un contrario venticello di tramontana.
All'improvviso un colpo di pistola risonò nel grave silenzio a
risvegliare gli echi più addormentati della montagna.
--È ancora quella pazza ubbriaca di Vera che tira ai palloncini: finirà
coll'ammazzare qualcuno, se non la fanno smettere--disse Ezio.
Sul terrazzo del Ravellino dondolavano al vento gli ultimi palloncini
d'una illuminazione giapponese che don Erminio Bersi aveva allestita
in onore degli amici e di certe sue amiche, mentre or sì or no venivano
sui voli d'aria gli ultimi schiamazzi della baldoria. Rovinato nel credito,
diffidato dai parenti, perseguitato dai malvagi creditori don Erminio
Bersi a trent'anni, messo nel bivio o d'imbarcarsi per l'America o di
sposare le ottocentomila lire d'una Pezzani di Codogno, un nome quasi
glorioso nell'industria del formaggio, aveva preferito le ottocentomila
lire; ma prima di dare un estremo addio al mondo e alle sue pompe
aveva voluto radunare un'ultima volta al Ravellino gli amici dell'Asse
di cuore e gli altri ch'eran soliti ritrovarsi con lui d'inverno nelle sale
superiori del Caffè Storchi a Milano, cioè oltre a Ezio Bagliani e ad
Andreino Lulli, Tito Netti, Filippino Doria, il marchese Schiavi e le più
ragionevoli loro amiche, tra cui Vera Spino, Liana detta la Spagnuola e
quella patetica Gismonda, mima simbolica, come dicevano gli adoratori,
bellezza trasparente che morì tisica a San Remo, dopo aver rovinato un
paio di principi russi.

Nelle sale del Caffè Storchi i compagni dell'Asso di cuore non
pretendevano di far dell'accademia, nè della politica, nè dell'economia
sociale; ma semplicemente divertirsi nel miglior modo, ciascuno
secondo i propri mezzi e le proprie facoltà. Vi si cenava spesso dopo i
teatri, vi si facevano dei giuochi atletici, della ginnastica svedese, dello
sport da camera, vi si giuocava a scopa, a bezigue, perfino alla briscola
plebea: vi si declamavano delle concioni e dei versi, si cantava, si
miagolava su un disperato pianoforte, vi si facevano insomma delle
allegre goffaggini in mezzo al fumo degli avana e delle pipette di gesso
all'unico intento di non sentire il peso della noia, che facilmente
strapiomba su chi ha poco da fare e nulla da pensare. Tutto era
permesso, tranne il dire una cosa troppo seria e troppo sensata. Chi si
fosse lasciato scappare di bocca una sentenza o un proverbio con
intendimento pedagogico doveva pagare o scontare il delitto con
qualche speciale supplizio. La notte che arrivò il telegramma
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