Clelia | Page 9

Giuseppe Garibaldi
ove dominavano il
mercenario straniero ed il prete! Dove in una popolazione immensa, il
poco di buono che c'era, stava imprigionato, proscritto, o ridotto alla
miseria?
Il portone della nobile casa venne schiuso. Il portiere riconosciuto il
reverendo padre Ignazio, con un strisciante inchino lo salutò, baciògli
la mano e gli fece lume accompagnandolo fino ai primi gradini della
scala più per cerimonia che per bisogno essendo già ben rischiarato
dalla lampada l'ampio scalone d'una casa delle più opulente di Roma.
"Ov'è Flavia?" chiese il chiercuto al primo servo che gli capitò davanti,
e Siccio, che tale era il nome del servo, proprio Romano davvero e
poco simpatico all'uccello di cattivo augurio: "Al capezzale della
morente" rispose, e voltò le spalle.
Ignazio con passo frettoloso, siccome ben pratico della casa,
s'incamminò verso una stanza da letto che chiudeva una serie di salotti
e di stanze ricchissime. Giunto alla porta faceva udire (sommesso però)
certo grugnito che avea del bestiale, ma ben inteso e capito egualmente,
poiché in un attimo, lo schifoso ceffo d'una vecchia suora comparve
sull'uscio, schiuse, introdusse premurosamente il prete e scambiò con
lui uno di quegli sguardi che avrebbero agghiacciato il sole, se fossero
stati ricambiati al suo cospetto.
"È fatto?". "È fatto!" era la risposta della donna, ed entrambi
s'incamminarono verso il giaciglio della morente.
Don Ignazio trasse di sotto alla gonnella una boccetta, ne vuotò il

contenuto in un bicchiere ed aiutato dalla suora, sollevò il capo della
moribonda che aprì macchinalmente la bocca e bevette fidente od
inconscia tutta la pozione.
Un sogghigno di soddisfazione infernale volava dall'uno all'altro viso
dei due scellerati. Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile
della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un
angolo della stanza. Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio;
questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava
coll'occhio alla firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando
lo scritto, lo intascava con mano convulsa, senza aggiungere altro che
un "Sta bene! Voi avrete la vostra ricompensa!".
Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di Emilio
Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie
di Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla
sua volta soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole
orbata dei genitori, cui rimaneva soltanto l'appoggio della vecchia ava.
Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo dell'antichissima
stirpe dei Pompei, con affetto vìvissimo, e certo non avrebbe mancato
di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che volete?
come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l'anima
dell'inferno.
Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono privilegio
della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza di giri
e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento s'introducesse
un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo
accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il
quale agognava all'intera proprietà della casa Pompeo.
Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia per
infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi
permettere ch'altri l'avvicinasse, quando il corpo e la mente dell'infelice
per l'aggravarsi del male s'andarono indebolendo, il ribaldo non trovò
difficoltà a sostituire al testamento che portava il legato un nuovo
testamento che lasciava per intero l'eredità Pompea alla corporazione di
S. Francesco di Paola, creando per giunta don Ignazio stesso esecutore
testamentario.
Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse la miseria e
lo spoglio dell'infelice bambino per impinguare la crapula di quei figli

della maledizione.
Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua cameretta
ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano
infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.

CAPITOLO VIII
IL MENDICO
Diciott'anni sono trascorsi da quella sera fatale in cui un prete nero nero
come la befana avea traversato la piazza della Rotonda per commettere
il nefando delitto che abbiamo narrato e noi ritornando sulla stessa
piazza vediamo appoggiato ad una delle colonne del Panteon un
mendico avvolto nel solito mantello foggiato a toga.
Non era questa volta una notte oscura di dicembre. Era un tramonto
procelloso di febbraio.
Il mendico teneva avvolto intorno alla persona lo sdruscito mantello
tanto da nascondere anche la parte inferiore del viso ma alle scarse
sembianze che rimanevano svelate scoprivasi una di quelle fisonomie
che vedute una volta ti restano impresse per tutta la vita.
Un naso Romano divideva due occhi azzurri che avrebbero
abbarbagliato un leone: benché coperte il contorno delle spalle era
mirabile e mostravano di appartenere a tale che non sarebbe stato facile
insultare impunemente. L'attitudine, il contegno della persona
apparivano imponenti, e lo scultore spesso dovette aver ricorso a quel
mendico quando volle inspirarsi ad un atteggiamento eroico(13).
(13) Il modello e la modella sono professioni apprezzate
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