Carta bollata | Page 9

Salvatore Farina

fuori che lui, avrebbe potuto far meglio. Ma, celeste misericordia!
Bortolo, poveraccio, non macellava più, non sapeva più come fossero
fatti i marenghini con cui una volta pagava i buoi; non era oggi il regno
della carta straccia? e dunque? se Giusto gli volesse credere... Bortolo
non aveva visto da un poco una moneta d'oro.
Il faro della pittura lombarda a questo punto era già un faro spento, ma
volle mandare un ultimo guizzo dicendo allegramente a suo cugino che
egli si sarebbe contentato di mille lire in carta, anche stracciata o
rappezzata, pur che vi si leggesse chiaramente l'uso che doveva fare.
--Ma io, volle conchiudere Bortolo, cominciando a entrare in collera.
--Ma tu, interruppe Giusto, tu non me li puoi dare, non è così?
Era proprio così.
--Allora ti saluto.
--Te ne vai? Mi dispiace tanto, ma io non posso far nulla; non è una
settimana che ho dovuto pagare un debito di quattrocento lire che mio
figlio, quello scapestrato di mio figlio Gerolamo, mi ha fatto a Pavia. Io
non avrei pagato, te lo giuro, perchè un mese prima l'altro mio figlio,
Giuseppe, quello che mi minaccia da dieci anni di non pigliar la laurea
di ingegnere, mi aveva salassato di cinquecento lire; ma Gerolamo, che
studia la legge da sette anni, mi assicurò che bisognava pagare, perchè
egli aveva imitato la mia firma in una cambiale protestata. Vedi dunque
se un cristiano battezzato può aiutare un cugino quando ha la disgrazia
di due figliuoli come i miei. Ti dico io, è impossibile, e quando te lo
dico puoi credere.... Ma se ti fermi un momentino posso farti assaggiare
un dito di barolo vecchio come il peccato mortale.
--Davvero?
--Sì, proprio.
L'idea di bere il vino del parente che gli negava mille lire in prestito,

sorrise in un cantuccio del cervello a Giusto; bevve allegramente,
riconobbe che il barolo vecchio come il peccato mortale era saporito
come il peccato veniale, e se ne andò con molta disinvoltura,
ringraziando lo stesso.
Non sembrando vero al macellaio d'essersi sbarazzato con così poco,
volle almeno dare un buon consiglio al suo giovine parente.
--Va a trovare tuo cugino, l'usciere, gli gridò dal pianerottolo, egli forse
accomoderà il fatto tuo.
--Grazie, rispose il faro della pittura lombarda, dall'ultima scala.
Uscendo al sole era spento più d'un fanale.
Cristina gli rientrò subito nel cervello, cacciando ogni altra melanconia.
E allora chi pagherà l'agente delle imposte? Se è destino che qualcuno
paghi, qualcuno pagherà; ma mi pare che non sia destino, signor
agente.
Gli trottavano per il capo due forme di lettere all'agente delle imposte.
In una era il commiato semplice e garbato, in un'altra più tentatrice la
garbatezza era ironia, la semplicità si perdeva assolutamente di vista.
Prima di tornare a casa non aveva ancora fatto la scelta, e quando si fu
messo davanti al cavalletto a carezzare col pennello la sua Cristina,
l'agente delle imposte potè credersi dimenticato.
E veramente Giusto se ne dimenticò tutto un mese per amor di Cristina,
fin che l'agente delle imposte gli rinfrescò la memoria per mezzo
dell'esattore. Il termine dei reclami essendo scaduto, l'agente se n'era
lavato le mani, incaricando il suo sozio di riscuotere lire 811 entro otto
giorni dal giorno tale, minacciando la multa per ogni giorno di ritardo,
e se fosse proprio necessario, il pignoramento dei mobili.
Allora a un altro fuor che a Giusto non rimaneva se non pagare; invece
il faro della pittura lombarda aveva ancora lo scampo di imballare alla

chetichella i pochi mobili, oppure vendere tutto il vendibile, e piantare
in asso esattore ed agente con due palmi di naso.
Ma sì, ora l'idea di andarsene non gli sorrideva più come la prima volta,
perchè Cristina gli era entrata troppo nel cuore, e la tela incominciata,
ancor che l'avesse portata seco, non lo poteva compensare di tutto
quanto perdeva. E avrebbe perduto tutta quanta la felicità, che non era
poi gran cosa; giacchè non avendo potuto trovare verun pretesto giusto
di tornare in casa dell'usciere, egli non aveva potuto avvicinare la sua
innamorata. Pure l'aveva vista di buon'ora alla finestra di strada,
rischiando il torcicollo ogni mattina per guardare al quarto piano; più
tardi, all'ora del desinare, e più tardi ancora, prima di notte, si era fatto
una festa di andare nella strada del suo paradiso, a indovinare da
lontano il visino dell'angelo suo, quando non gli capitava la disgrazia di
trovare la finestra chiusa; ma allora era segno che l'angelo era uscito
con la fantesca, e aspettando di piè fermo sulla cantonata, mettendo gli
occhi inquieti un po' per tutto, era quasi sicuro di incontrarla sulla via e
di dirle alla muta tutto l'amor suo sconfinato.
Quando fosse andato a Lugano o altrove, chi gli renderebbe questa
felicità perduta?
Giusto vide bene che non gliela renderebbe nessuno, nemmeno l'eterno
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