Alessandro Manzoni | Page 5

Alessandro De Gubernatis
la nostra ammirazione, nè
così importante, per quanto fosse già molto viva la nostra curiosità di
conoscere tutto ciò che lo riguardava.

II.
La nobiltà del Manzoni.
In una delle sue lettere alla propria moglie, Massimo d'Azegiio le
narrava una visita fatta al paese originario di casa Manzoni: "Ci hanno
detto (egli scrive) che i vecchi della famiglia, ai tempi feudali, avevano
un certo cane grosso, che quando andava per il paese i contadini erano
obbligati a levargli il cappello, e dirgli: _Reverissi, sur can _(La
riverisco, signor cane)." Un proverbio della Valsássina, ove i Manzoni
una volta spadroneggiavano come signori del luogo insieme con la
famiglia de' Cuzzi, suona ancora così:
Cuzzi, Pioverna e Manzòn Minga intenden de resòn.
Cioè, le famiglie Cuzzi e Manzoni ed il torrente Pioverna, quando
straripa, non intendono punto la ragione. Dalla Valsássina la famiglia
Manzoni passò ad abitare in quel di Lecco, dove il signor Pietro
Manzoni, padre del nostro Poeta, possedeva molte terre ed una bella
palazzina detta Il Caleotto, che nell'anno 1818 Alessandro Manzoni fu
costretto a vendere, insieme con gli altri beni per la mala
amministrazione di chi aveva tenuto, per oltre un decennio, la procura
ed il governo di quelle terre, una parte delle quali si trovava nel
Comune di Lecco, altre in Castello, altre in Acquate, il villaggio per
l'appunto de' Promessi Sposi. Come Renzo si trova obbligato a lasciare
il proprio villaggio ed a vendere la propria vigna per recarsi ad abitare
nel Bergamasco; così il nostro Poeta dovette, per salvar la villa di
Brusuglio, abbandonar luoghi che gli erano cari, dove aveva passata
una parte della sua infanzia, dov'era tornato a villeggiare tra gli anni
1815 e 1818, onde non è meraviglia l'intendere dallo Stoppani che in
quegli anni, per l'appunto, Alessandro Manzoni si trovasse pure a capo
dell'amministrazione del Comune di Lecco; meno ancora ci
meraviglieremo, dopo di ciò, che la scena de' Promessi Sposi sia stata

posta dall'Autore nel villaggio di Acquate, nel territorio di Lecco, nei
luoghi ove lo riportavano le prime e le più care sue reminiscenze e dai
quali egli s'era dovuto staccare per sempre con un vivo dolore, tre anni
e mezzo soltanto innanzi ch'egli incominciasse a scrivere il proprio
romanzo. I Manzoni erano dunque nobili, ma nobili decaduti dai loro
titoli di nobiltà e dalla loro antica potenza. Avevano dominato una volta
con la forza. La fortuna d'Italia volle che col sangue del Manzoni, che
la tradizione ci rappresenta quali uomini violenti, si mescolasse un
giorno un sangue più gentile, e che, per gli ufficii dell'economista
Pietro Verri e, come vuolsi, del poeta Giuseppe Parini, l'illustre
marchese Cesare Beccaria sposasse un giorno la non ricca, ma bella,
giovine ed intelligente sua figlia Giulia al proprietario del Caleotto, a
Don Pietro Manzoni, uomo intorno alla cinquantina; e che da quelle
nozze fra una nobile fanciulla milanese ed un grosso signorotto di
provincia, il 7 marzo dell'anno 1785, nella città di Milano, nascesse un
figlio. Se mi si domandasse ora qual conto il nostro Poeta facesse della
sua origine nobilesca, mi troverei alquanto imbarazzato a rispondere.
Nel suo discorso, nel suo contegno, tutto pareva in lui signorile; ma, nel
tempo stesso, egli si adoprava a riuscir uomo semplice ed alla mano.[1]
Forse in gioventù aveano desiderato dargli una educazione più
aristocratica che la sua vera condizione di nobile decaduto non
comportasse; Don Pietro Manzoni, uomo alquanto materiale, venuto
dalla provincia a stabilirsi in Milano[2], dovea, fra i nobili milanesi,
trovarsi alquanto spostato e l'arguta intelligenza del figlio potè sentire,
per tempo, ciò che v'era di falso in quella condizione della propria
famiglia fra l'alto patriziato lombardo. Se è vero che, nella educazione
del giovane Ludovico, divenuto poi Fra Cristoforo, il Manzoni abbia
inteso, in qualche modo, rappresentare la propria gioventù, convien dire
ch'egli non avesse della propria nobiltà gentilizia, per la stima che se ne
faceva a Milano, una opinione superlativa; ma, come discendente dagli
antichi signori di Barzio nella Valsássina, come antico proprietario del
Caleotto egli dovea pure ricordare che i suoi padri erano stati una volta
il terrore delle terre da loro dominate e persuadersi che, se la sua
nobiltà contava poco a Milano, avea contato troppo dalle parti di Lecco.
Questa speciale contradizione nella stima ch'egli potea fare della
propria nobiltà, lo tirava ora a farsi piccino con Renzo, ora a
immaginarsi grande con l'Innominato, ora a collocarsi ragionevolmente

fra i due con la figura di Fra Cristoforo. Ma quali fossero i panni, di cui
gli piacesse vestirsi, o rivestirsi, egli doveva sentir sempre l'altezza del
proprio ingegno sovrano, la quale poi si dimostrava altrui molto più
nella modestia che ne' vanti volgari. Poichè uno de' privilegi degli
uomini grandi (un privilegio che talora può anche divenire una loro
debolezza) è quello di trovar compiacenza nel farsi piccini. Crediamo,
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