e ce la porse.
Era una lettera ancora chiusa, proveniente da New-York. L'aprimmo. Un amico scriveva a Cornetta che aveva saputo la sua condanna e che gli dispiaceva di non poterlo andar a salutare per la difficoltà di ottenere il permesso. Nient'altro.
Tutto era già pronto, per l'esecuzione e stava per rizzarsi la forca, quando, qualche giorno dopo la nostra visita, il Comitato giudiziario del Senato avvertì che la Legislatura aveva approvato un bill, il quale stabiliva che se un condannato, come aveva fatto Cornetta, si appellava al General Term, si doveva sospendere l'esecuzione fino a che la Corte del suddetto General Term non avesse esaminato il caso e preso una decisione in proposito.
L'esecuzione, quindi, era stata sospesa: ma ben presto si venne a sapere che la legge citata, la quale emendava alcuni articoli del codice criminale dello Stato di New-York, non era valida nel caso di Cornetta, perchè votata ed approvata dopo il processo e la condanna del Cornetta stesso. L'esecuzione, perciò, non poteva essere rimandata. Ma, viceversa, fu accordata una dilazione, essendo sorta una questione sull'effetto retroattivo della nuova legge.
E intanto, con queste alternative di vita e di morte, il condannato si trovava in uno stato orribile e diventava completamente pazzo.
Infatti, quando il 5 aprile veniva condotto davanti al giudice della Corte Oyer and Terminer di White Plains per sentirsi confermare la sentenza, portava in mano un piccolo crocifisso che teneva rivolto verso il giudice, e richiesto se aveva qualche cosa da opporre, pronunziava in italiano, fra pianti e sospiri, un discorso sconclusionato che non aveva nulla da fare col processo.
Solo quando il giudice gli disse che doveva essere giustiziato il giorno 11 maggio successivo:
--Me not die!--esclamò il prigioniero col suo orribile inglese.--Io non morirò!
E mostrò al giudice il crocifisso. Si dovette usare la forza per farlo uscire: tirava calci, mordeva sceriffo e policemen con ferocia bestiale, facendo fuggire tutti gli astanti impauriti.
Legato e rinchiuso nella cella, ora dava in terribili smanie, imprecando contro lo sceriffo e rifiutando di cibarsi; ora stava sdraiato, immobile sul letto, e ricusava i conforti religiosi mentre continuava a tener sempre con sè il crocifisso.
Nelle ultime settimane s'era messo in testa che l'11 maggio, giorno fissato per l'esecuzione, egli doveva essere messo in libertà. Appariva così evidente che con tutte quelle lungaggini lo sciagurato era impazzito, che alcune caritatevoli persone pregarono lo sceriffo Horton di affidare ad una commissione medica l'esame delle condizioni mentali del condannato. Lo sceriffo acconsentì, ma incaricò della perizia i due medici del paese, i quali visitarono Cornetta quella sera stessa e lo dichiararono sano!
Intanto ai preti, che lo invitavano a pensare a Dio, Cornetta rispondeva:
--Non sono cattolico, io: sono democratico.
Alla vigilia dell'esecuzione io tornavo a White Plains insieme coi reporters dell'Herald, del Sun, del Times e del World. Nel cortile della County Jail, fra il carcere e la Court House, vicino a un ponticello che unisce i due edifizi e che si chiama dei sospiri, sorgeva la forca senza palco: le solite tre travi, due verticali e una di traverso; una forca alta sedici piedi e larga dodici, con un contrappeso di ferro pesante 275 libbre. Varie persone entravano ed uscivano liberamente dal cortile ed esaminavano con curiosità il patibolo.
Lo sceriffo ci permise di vedere il Cornetta, ma non volle che alcuno gli parlasse. Appena lo salutammo, il condannato, pallido, cogli occhi stravolti, si affacciò alle sbarre della porta e ci guardò fissi: non mi riconobbe.
--Come va, Angelo?--gli dissi in italiano.
Egli salutò col capo, fu agitato da un tremito nervoso e strinse convulsivamente i ferri della porta. Davanti alla cella stavano seduti due uomini, le guardie della morte.
Il padre Giulio, un prete cattolico, ci raccontava che quel giorno aveva parlato due ore con Cornetta, ma non era riuscito a convincerlo che all'indomani doveva morire. Il condannato s'era fitto in mente che invece del 10 quel giorno era l'11 maggio e affermava che doveva essere messo in libertà.
E quando il prete lo esortava a pensare all'anima, rispondeva:--Mi confesserei, padre, se dovessi essere giustiziato, ma io invece devo essere posto in libertà.
--Insomma--ci diceva il padre Giulio--non ha la coscienza dell'orribile posizione in cui si trova e temo che domani mattina la scena dell'impiccagione debba riuscire raccapricciante.
--Ella è persuaso, padre, che il disgraziato sia veramente impazzito?
--Sì, e credo che lo stesso sceriffo ne sia convinto, ma ha dovuto rimettersi al giudizio superficiale dei due medici che non parlano l'italiano e che non capivano perciò quello che Cornetta diceva.
Ritornammo al carcere verso mezzanotte. Ci dissero che il condannato aveva passata la serata abbastanza tranquillamente e che dormiva, sicuro di essere liberato all'indomani.
Il villaggio era tranquillo e la notte stupenda.
* * *
La mattina dell'11 maggio, siccome si era annunziato che l'esecuzione avrebbe avuto luogo di buon'ora, entrammo pochi minuti dopo le sei nel cortile del carcere, dove s'erano già radunate quasi cento persone, le quali
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